Libri. Hitler, ecco gli ultimi scritti del leader nazista - Così Hitler costruiva menzogne

di Mario Avagliano

  Adolf Hitler è morto da settant’anni, ma mai come oggi si registra tanto interesse attorno alla sua figura. È di pochi giorni fa la notizia, non proprio tranquillizzante, che diverse scuole italiane hanno adottato come libro di testo il suo delirante manifesto politico e ideologico, il Mein Kampf, con conseguente coda polemica da parte dell’Unione delle Comunità Ebraiche. Nel frattempo in libreria arrivano nuovi saggi su Hitler, che svelano nuovi dettagli del suo pensiero e della sua vita.
Ultima tra le pubblicazioni del Führer è la nuova edizione delle sue ultime riflessioni, pubblicata da Rizzoli col titolo Il mio testamento politico (pp. 162, euro 13), arricchita da una prefazione del politologo Giorgio Galli, il maggior studioso italiano dei rapporti tra nazionalsocialismo e cultura esoterica.
Si tratta degli appunti affidati da Hitler, in una serie di conversazioni a tavola, al suo segretario personale Martin Bormann nel bunker della Cancelleria, in una Berlino distrutta dai bombardamenti e assediata dai sovietici, tra il febbraio e l’aprile del 1945. Poche settimane dopo Hitler avrebbe nominato Bormann suo esecutore testamentario e suo successore come capo del partito. Hitler fa un bilancio della sua vita e s’interroga sui motivi della guerra e sul perché l'ha persa. Dove aveva sbagliato?
Il suo testamento, pubblicato negli anni Cinquanta e poi divenuto praticamente introvabile per decenni (in Italia venne edito solo nel '61), getta nuova luce sulle motivazioni che guidarono le scelte di Hitler. Si tratta dell’«ultima finestra che doveva aprirsi su quella buia stanza, così infetta, laida e stregata, e ciononostante così satura di autentica anche se terribile forza esplosiva, ch’era la sua mente», come scrive Trevor-Roper nell’introduzione.
Il Fũhrer afferma di essere stato «l’ultima speranza dell’Europa» contro il pericolo della Russia e contro «il veleno mortale dell’ebraismo» e sostiene che in realtà non voleva la guerra, che gli sarebbe stata imposta dagli Alleati, rifiutando le richieste della Germania, e dagli odiati ebrei che volevano dominare il mondo. Ciò non toglie che egli continuasse a paragonarsi a Napoleone, che, come lui, era stato costretto a fare la guerra anche se voleva la pace.
Quanto a Mussolini, il dittatore nazista afferma di riporre in lui personalmente «assoluta fiducia», ma di averlo tenuto all’oscuro di alcune sue iniziative militari a causa di Ciano «il quale, naturalmente, non aveva segreti per le belle donne che gli svolazzavano intorno come farfalle».

L’altro saggio da poco arrivato in libreria è Il libro proibito di Hitler. Storia del Mein Kampf (Rizzoli, pp. 356, euro 22), opera del giornalista e storico tedesco Sven Felix Kellerhoff, che ha ricostruito la genesi dell'opera di Hitler, vera e propria bibbia del nazismo, il suo percorso editoriale e la fortuna che ebbe da parte dei lettori (ne furono stampate 12 milioni di copie), fino al divieto di pubblicazione nel dopoguerra da parte della Baviera, caduto solo di recente, con il via libera a un’edizione ufficiale commentata.
Hitler concepisce la sua opera nel 1924, mentre è rinchiuso nel carcere di Landsberg, per alto tradimento dopo il putsch fallito. In cella sente l’esigenza di mettere nero su bianco la sua visione del mondo e della Germania.
La ricerca di Kellerhoff stabilisce sulla base di documenti (5 pagine originali del volume e ben 18 scalette ritrovate nel 2006 e provenienti dalla macchina da scrivere personale del futuro dittatore) che il libro sarebbe stato scritto integralmente da Hitler e anzi in gran parte da lui battuto direttamente a macchina, su una Meteor da viaggio. Rudolf Hess collaborò solo alla correzione delle bozze, con la collaborazione della futura moglie Ilse Pröhl.
Interessante anche la ricostruzione delle fonti del Mein Kampf, raramente citate da Hitler: dall'Ebreo internazionale di Henry Ford ai saggi dell'esperto di eugenetica svedese Herman Lundborg e del teorico razzista tedesco Hans F.K. Günther. Anche la teoria dello «spazio vitale» non fu opera del futuro Fũhrer che la copiò dalle idee di uno dei professori di Rudolf Hess: Karl Haushofer.
Non mancano le bugie costruite ad arte da Hitler. Ad esempio le informazioni autobiografiche non sono affidabili: il padre non era un oppositore della monarchia austroungarica, ma un funzionario doganale ripetutamente promosso per i suoi servigi e la sua lealtà.

Quanto all'antisemitismo di Hitler, che rappresenta il fulcro della Weltanschauung nazista, questi nel suo libro lo fa risalire già alla sua giovinezza a Vienna. Una tesi che, rileva Kellerhoff, contrasta con la sua vicenda biografica e con i suoi buoni rapporti con famiglie ebree del luogo, come gli Jahonda. Anzi, probabilmente fu il suo tenente ebreo Hugo Gutmann ad adoperarsi per fargli assegnare la Croce di ferro di prima classe il 4 agosto del 1918. Secondo lo storico tedesco la conversione ideologica di Hitler sarebbe avvenuta dopo la guerra. Un’altra bugia del futuro Führer del Terzo Reich.

(Il Messaggero, 29 dicembre 2016)

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Eichmann, il boia nazista chiese la grazia a Gerusalemme

di Mario Avagliano
 
   Fino all’ultimo momento il criminale nazista Adolf Eichmann provò a negare le sue responsabilità nella Shoah, affermando di essere stato un «semplice strumento» di Adolf Hitler. È quanto risulta dalla lettera manoscritta dello stesso Eichmann, datata 29 maggio 1962, che oggi, in occasione della Giornata della Memoria, il presidente israeliano Reuven Rivlin ha deciso per la prima volta di rendere pubblica. Una missiva di quattro pagine, indirizzata all'allora presidente d’Israele Yitzhak Ben-Zvi, di cui già si conosceva l’esistenza (ne aveva parlato tra gli altri Hannah Arendt nel suo libro La banalità del male), ma non il contenuto.
Nella lettera Eichmann sosteneva che il tribunale israeliano avesse esagerato il suo ruolo nell'organizzazione della logistica della «soluzione finale», vale a dire nello sterminio degli ebrei. «Bisogna distinguere i responsabili dalle persone che come me sono state semplici strumenti nelle loro mani», scrisse l'ex ufficiale delle SS. «Io non ero un responsabile e non mi sento quindi colpevole» (...) «pertanto non ritengo giusto il giudizio della corte e vi chiedo, signor presidente, di esercitare il vostro diritto a concedermi la grazia, così che la condanna a morte non venga eseguita».
In realtà il funzionario tedesco, classe 1906, era stato uno dei protagonisti della persecuzione degli ebrei in Europa. Già all’età di ventotto anni venne incaricato dalla Gestapo di occuparsi della questione ebraica. Segretario della conferenza di Wannsee del 20 gennaio 1942 che decise la «soluzione finale», curò in prima persona il meticoloso piano dei trasporti ferroviari di deportazione degli ebrei, contribuendo al perfetto funzionamento della macchina di morte nei lager di Auschwitz e della Polonia orientale (Belzec, Sobibor, Treblinka).
Nel 1945 Eichmann, al pari di altri gerarchi nazisti, riuscì a far perdere le proprie tracce, imbarcandosi nel 1950 a Genova per l’Argentina, con un passaporto falso intestato a Ricardo Klement. Il funzionario nazista lavorava in uno stabilimento della Mercedes a Buenos Aires quando venne individuato dagli agenti del Mossad, i servizi segreti israeliani. Rapito l’11 maggio 1960, fu trasportato a bordo di un aereo in Israele, dove venne processato e condannato a morte nel 1961.
La lettera – insieme a quella con cui Ben-Zvi respinse la richiesta di grazia – è stata esposta nella residenza dell’attuale presidente israeliano Reuven Rivlin, nell’ambito di una mostra inaugurata ieri e dedicata al celebre processo del 1961, che riaccese l’attenzione sulla Shoah, mandato in onda in diretta tv mondiale e svoltosi presso il Beit Haam, la Casa del Popolo di Gerusalemme.
Proprio in questi giorni è uscito in numerose sale cinematografiche italiane, come evento speciale per la Giornata della Memoria, The Eichmann Show, film di produzione britannica, diretto da Paul Andrew Williams, che ripercorre tutte le tappe produttive della diretta televisiva delle 121 udienze del processo, narrando fra l’altro, grazie a videocamere nascoste, le reazioni di Eichmann di fronte alle testimonianze dei sopravvissuti.
Eichmann venne impiccato poco prima di mezzanotte del 31 maggio 1962 in una prigione a Ramia. Come prescriveva il verdetto, il suo cadavere venne cremato e le sue ceneri disperse da una motovedetta israeliana nel Mediterraneo, al di fuori delle acque territoriali d’Israele. Il suo processo venne seguito per la rivista New Yorker da Hannah Arendt, che lo descrisse come «un esangue burocrate» che si limitava ad eseguire gli ordini e ad obbedire alle leggi. Una tesi poi messa in discussione da vari studiosi e che è stata di recente demolita da un saggio della filosofa tedesca Bettina Stangneth, intitolato Eichmann prima di Gerusalemme. La vita non verificata di un assassino di massa, che lo ha identificato come un carrierista rampante e ambizioso e un nazista fanatico e cinico, che agì con incondizionato impegno per difendere la purezza del sangue tedesco dalla «contaminazione ebraica».

(Il Messaggero e Il Mattino, 28 gennaio 2016)

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Storie - La Memoria degli internati militari

di Mario Avagliano

  La legge istitutiva della Giornata della Memoria del 2000 riguarda, oltre che la Shoah e la persecuzione degli ebrei, anche i deportati politici e gli internati militari. All'indomani dell'8 settembre 1943, infatti, le truppe naziste nell'occupare l'Italia, scatenarono una caccia all'uomo nei confronti degli ebrei, con la complicità del redivivo fascismo di Salò, ma anche una feroce repressione dell'opposizione politica e sociale, con la deportazione di antifascisti, resistenti civili, partigiani, operai scioperanti. Inoltre l'esercito tedesco catturò e disarmò in Italia e sui vari fronti di guerra (dalla Francia ai Balcani alle isole greche) circa 1 milione di ufficiali e soldati italiani, spesso con l'inganno e non di rado con la collaborazione di nostri connazionali immediatamente schieratisi con la Germania a seguito dell'armistizio.
Di questo milione di soldati, circa 100 mila aderirono subito alle Ss tedesche o alla Rsi e altri 190 mila riuscirono a fuggire o vennero rilasciati.
In 710 mila vennero internati nei campi del Reich e posti di fronte all’alternativa se entrare nell’esercito della Repubblica Sociale, guidata da Benito Mussolini, oppure restare in prigionia, soffrendo la fame e sopportando gli stancanti e snervanti turni di lavoro. La maggior parte di loro, circa 600-630 mila, disse di “no” all’adesione, in nome della fedeltà all’Italia, al re e all’ideale di libertà, anche se una quota non irrilevante (oltre 100 mila) optò per la Rsi.

Diverse migliaia di internati morirono nei campi, per le pessime condizioni di vita e di lavoro o anche perché picchiati e fucilati. Anche la loro storia va ricordata.

(L’Unione Informa e moked.it del 26 gennaio 2016)

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Melograni raccontò l’altra faccia della Storia

di Mario Avagliano

  Uno storico liberale, eterodosso, che primo in Italia, nel 1976, sfidò certi tabù sul rapporto tra il regime fascista e i suoi oppositori, con la celebre Intervista sull’antifascismo a Giorgio Amendola (Laterza). Ma anche uno straordinario divulgatore televisivo e di prodotti multimediali di successo, come Combat film.

Era tutto questo Piero Melograni, nato a Roma il 15 novembre 1930, professore emerito di storia contemporanea all'Università di Perugia, «uomo d’altri tempi, elegante e generoso», scomparso ieri mattina, all'età di 81 anni, nella sua casa nella capitale, dopo una lunga malattia «che lo aveva debilitato – come ricorda il suo collega Pino Pelloni – in quella che è la materia prima dello storico: la memoria».
Melograni si iscrisse al Pci nel 1946, ad appena sedici anni di età, e ne uscì con un altro centinaio di intellettuali, firmatari del Manifesto dei 101, nel 1956, in aperta polemica contro l’invasione sovietica in Ungheria. Lasciata la politica per circa un trentennio, si dedicò all'attività storica e universitaria. Amico di Renzo De Felice, realizzò importanti studi sul fascismo (a partire dal libro Mussolini e gli industriali, Longanesi, 1972), sul comunismo e sulla prima guerra mondiale. La sua Storia politica della Grande Guerra 1915-1918 (Laterza, 1969) è ancora un punto di partenza obbligato per chi studia le vicende di quel periodo. Il file rouge delle sue ricerche, espresso in particolare nei saggi Fascismo, comunismo e rivoluzione industriale (Laterza, 1984), La paura della modernità (Cedis, 1987) e La modernità e i suoi nemici (Mondadori, 1996), è la forte critica al ruolo recitato in Italia dal fascismo e dal comunismo, ideologie che a suo avviso avevano in comune il rigetto del libero mercato e del valore del merito. Melograni riapparve sulla scena politica nel 1996, quando fu eletto deputato come indipendente nelle liste di Forza Italia. Nel 2001, però, decise di non ricandidarsi, spiegando di essere «deluso dalla vita parlamentare: siamo dei semplici spingitori di bottoni».Tornato all’attività di storico, curò serie tv e prodotti multimediali di larghissima diffusione quali: Combat Film e La guerra degli italiani 1940-1945 (entrambi con Roberto Olla) e La Storia della Seconda Guerra Mondiale (con Pino Pelloni). Negli ultimi tempi Melograni si era interessato anche ai grandi musicisti: nel 2003 aveva pubblicato il saggio WAM (Laterza), dedicato a Mozart, e nel 2007 Toscanini (Mondadori). Notevole anche la sua traduzione de Il Principe di Machiavelli in italiano moderno (Rizzoli, 2006). Nel 2010, infine, diede vita al Premio Fiuggi Storia. La sua scomparsa ha suscitato commozione nel mondo politico e degli storici. Tanti i messaggi di cordoglio, che sottolineano «il vuoto lasciato nella cultura italiana». Ha voluto ricordarlo anche il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, suo antico amico, sottolineando le «molteplici prove del suo valore nella ricerca storica » e la sua capacità di affiancare al talento di studioso «una rara felicità di moderno comunicatore».

(Il Mattino, 28 settembre 2012)

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Nemici o alleati, comunque prigionieri

I militari italiani catturati da americani e inglesi furono 600mila: un capitolo poco noto che ora riemerge

  di Mario Avagliano

  Tra il 1940 e il 1946 quasi ogni famiglia italiana aveva un congiunto o parente prigioniero di guerra all’estero. Oltre un milione e duecentomila nostri militari furono catturati in Europa, in Africa o nel Mediterraneo. Di questo rilevante numero, circa 600 mila finirono nelle mani degli Alleati: 408 mila detenuti dagli inglesi, 125 mila dagli americani, 37 mila dai francesi e 20 mila quelli ufficialmente dichiarati dall’Unione Sovietica.

Nel dopoguerra per lungo tempo la questione dei prigionieri di guerra italiani è stata pressoché rimossa dalla memoria collettiva e la storiografia vi ha prestato scarsa attenzione. L’interesse per il tema si è ridestato negli ultimi trent’anni, con la pubblicazione di numerosi saggi, riguardanti soprattutto la prigionia in Germania e in Russia. Sulla vicenda dei prigionieri italiani degli Alleati, non erano stati prodotti studi esaurienti.
A colmare questo gap storiografico, sono intervenuti questa estate due interessanti libri di Flavio Giovanni Conti, I prigionieri italiani negli Stati Uniti (Il Mulino, pp. 576, euro 28), e di Isabella Insolvibile, Wops. I prigionieri italiani in Gran Bretagna (Edizioni Scientifiche Italiane, pp. 358, euro 38), entrambi basati in larga parte su documentazione inedita, tratta da archivi italiani, inglesi e statunitensi.
Non tutte le prigionie furono uguali, ed è nota la dura sorte dei 650 mila internati militari italiani in Germania e dei prigionieri in Unione Sovietica. Gli inglesi trattarono i nostri connazionali in modo piuttosto rigido ma nel complesso rispettoso delle norme della Convenzione di Ginevra del 1929, mentre gli Usa garantirono loro condizioni di vita nettamente migliori.
Dei 125 mila prigionieri italiani in mano agli americani, 51 mila furono trasferiti negli Stati Uniti. La loro storia viene ricostruita da Flavio Giovanni Conti: dall’arrivo dei primi contingenti nel dicembre 1942 al ritorno in Italia a scaglioni, fino al febbraio 1946. Nei campi gli italiani furono trattati molto bene e trovarono una grande varietà di generi alimentari: carne, birra, Coca-Cola, caffè, gelati, biscotti, frutti esotici e perfino ostriche. «Da quando sono rivato in America non ho piu soferto», mandò a dire a casa un nostro militare.
Il positivo atteggiamento nei confronti dei prigionieri italiani è più facilmente comprensibile se considerato alla luce della politica di «indottrinamento» perseguita dalle autorità americane, in collaborazione con la Chiesa cattolica: l’acquisizione di idee democratiche e filo-Usa era considerata funzionale alla collocazione dell’Italia nel blocco occidentale.
Anche le popolose comunità italoamericane si mobilitarono in favore dei prigionieri. Esse fecero sentire il loro peso, condizionando l’opinione pubblica statunitense che, dopo le rivelazioni sulle atrocità nei lager tedeschi, espresse critiche nei confronti dell’atteggiamento troppo benevolo (si parlò di coddling, «coccolamento») verso gli italiani.
Gli eventi successivi all’8 settembre 1943 e alla cobelligeranza provocarono contrasti e divisioni tra i prigionieri: la grande maggioranza aderì alla cooperazione con gli americani, lavorando per la vittoria degli Alleati, ma ci furono anche coloro che si rifiutarono.
Tali scelte determinarono la collocazione di cooperatori e non cooperatori in distinti campi, con una certa diversità nel trattamento, che in alcuni casi ebbe una connotazione quasi punitiva, come a Camp Hereford, in Texas, dove venne rinchiuso tra gli altri lo scrittore Giuseppe Berto. Solo ai militari italiani cooperatori fu consentito di andare a visitare città, recarsi in chiesa, al cinema, a feste da ballo, avere relazioni con donne. Ciò giustifica il diverso giudizio sull’esperienza americana, in generale positivo, fatta eccezione per alcuni reduci di sentimenti fascisti.
La storia misconosciuta dei prigionieri di guerra italiani in Gran Bretagna è raccontata invece da Isabella Insolvibile nel saggio Wops, termine che veniva utilizzato nei paesi anglosassoni per designare in senso spregiativo gli “italiani” (deriva dal napoletano “guappo” ed è traducibile con il nostro “terrone”), ma anche anagramma di P.o.Ws., forma abbreviata di Prisoners of War.
Tra il 1941 e il 1944 almeno 155.000 italiani furono trasferiti dagli inglesi nella madrepatria britannica, prelevati direttamente dai fronti africani o dai territori in cui erano stati detenuti in un primo momento, come l’India, il Kenya, il Sudafrica.  
Il motivo che spinse gli inglesi a “importare” gli italiani in Gran Bretagna fu prettamente economico: la maggior parte degli uomini abili erano impiegati sotto le armi e, di conseguenza, le fabbriche, le officine e i campi erano sforniti di manodopera. Gli italiani, ritenuti - diversamente dai tedeschi - non pericolosi per la sicurezza nazionale e considerati buona manovalanza, divennero fin dal 1941 una presenza costante nelle campagne britanniche. Alloggiati in campi ben attrezzati, furono tutelati dalle convenzioni internazionali relative ai prigionieri di guerra, assistiti dalla Croce Rossa Internazionale, nutriti con razioni abbondanti.
Tuttavia la condizione psicologica degli italiani fu caratterizzata da una costante malinconia e da un crescente malcontento, causati dalle condizioni di una prigionia che fu lunghissima da un punto di vista temporale, immutata dal punto di vista dello status giuridico – nonostante il variare della posizione dell’Italia nei confronti degli Alleati –, e prorogata a ben dopo la fine della guerra per le esigenze economiche degli inglesi.
Una storia di prigionia ma anche di discriminazione. I P.o.Ws. italiani, anche quando giunse la pace, rimasero immutabilmente dei Wops, gente considerata bellicamente, politicamente, culturalmente e anche razzialmente inferiore, disprezzata dalla popolazione britannica, abbandonata al proprio destino dalle autorità nostrane. I nostri soldati tornarono uomini liberi solo dopo l’ennesimo raccolto di barbabietole da zucchero in Gran Bretagna, a partire dall’inizio del 1946.
Qualcuno rimase nel Regno Unito o vi ritornò tempo dopo, come emigrante e soprattutto in qualità di “sposo di guerra”: infatti, nonostante il no fraternisation, molti prigionieri avevano nel tempo instaurato relazioni con giovani donne britanniche, e la conseguenza più evidente di queste storie d’amore proibite, come scrisse Elena Albertini Carandini, moglie dell’ambasciatore italiano a Londra, furono i tanti bambini inglesi “brunetti”.

(In formato leggermente più ridotto su Il Mattino, 5 ottobre 2012)

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Storia e giornalismo, Mario Avagliano conquista il web

Un grande Mazal tov da parte di tutta la redazione al collega e collaboratore di queste pagine Mario Avagliano. “Tra i blog italiani che per importanza e seguito possono legittimamente essere considerati, nel loro specifico settore di interesse, le realtà più interessanti e vitali del web”. A certificare il successo dello spazio digitale curato dal giornalista e storico (http://marioavagliano.blogspot.com/) una comunicazione ufficiale giunta questa mattina dall'ISPO, l'istituto di ricerca di Renato Mannheimer. A darne notizia lo stesso autore con una nota pubblicata sul proprio profilo Facebook.
Numerosi gli argomenti affrontati nel blog, animato con gli attesissimi interventi settimanali che Avagliano regala ogni martedì ai nostri lettori nella rubrica Storie e con altri estratti dai media UCEI: dall'impegno di Memoria verso le nuove generazioni alla tutela dei valori su cui si fondano le nostre società democratiche e plurali.
In testa alla home page la recensione – uscita ieri sull'Unione Informa – dell'ultimo intenso lavoro di Silvia Cuttin sull'odissea di tre cugini ebrei fiumani: Ci sarebbe bastato (Epika edizioni).

l'Unione Informa, 5 dicembre 2012

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E l'auto cambiò l'Italia

di Mario Avagliano

Ecco perché in Italia, più che altrove, rubando le parole ad un intellettuale dell’acume di Vittorio Foa, «l’auto, il motore a combustione interna, è un protagonista di questo secolo; nessun mutamento di questo secolo può essere confrontato col motore a scoppio, almeno prima del computer e della sua integrazione col telefono».
Da queste considerazioni è maturata l’idea brillante di Daniele Marchesini di ricostruire questo sogno italiano in un saggio per i tipi del Mulino, intitolato «L’Italia a quattro ruote». Un libro che in qualche modo continua un percorso già avviato dallo stesso Marchesini negli anni precedenti, con le splendide monografie su «L’Italia del Giro d’Italia», «Coppi e Bartali» e «Cuori e motori. Storia della Mille Miglia».
Il primo ad intuire che nell’immaginario collettivo l’automobile non era solo un mero mezzo di trasporto, fu Benito Mussolini. «Chiunque comperi un’automobile, sia pure la più piccola vettura di serie, diventa immediatamente antirivoluzionario. Non vuol più sentir parlare di quel comunismo che gli porterebbe via, forse, la sua vettura», dichiarò il duce a un giornale francese nel 1928. Prevedendo che in America non vi sarebbe mai stato un movimento rivoluzionario «perché ogni operaio pilota la sua Ford».
All’epoca dell’intervista le vetture in Italia erano circa centocinquantamila e Mussolini indicò il miraggio dell’auto popolare: «Un milione d’automobili in circolazione rappresenta una garanzia sociale». Una scommessa che non nasceva dal nulla. Lo stato maggiore della Fiat, costituito da Giovanni Agnelli, da Vittorio Valletta e dall’ingegnere Dante Giacosa, geniale disegnatore di tutti i modelli di quegli anni, puntava sull’utilitaria come mezzo di trasporto di massa e nel 1936 lanciò in pista la 500 Topolino. Ma quel sogno ducesco si scontrò con la dura realtà di un’economia fiacca, che perseguiva una politica di bassi redditi e che poi nel 1940 s’imbarcò nell’avventura disastrosa della guerra.
Fu solo a partire dal 1955, con il varo della mitica Seicento, l’auto regina del miracolo, che il progetto di una motorizzazione di massa si realizzò davvero. Il benessere derivante dal successo della politica di ricostruzione e di industrializzazione del Paese fece aumentare il potere d’acquisto degli italiani e consentì alla classe operaia di andare in Paradiso e ai signori Brambilla e ai signori Rossi di acquistare l’agognata utilitaria. Segnando l’inizio di un’era nuova per il Belpaese, con la costruzione dell’Autostrada del Sole e di una rete autostradale che ci era invidiata in tutto il mondo, la nascita degli Autogrill, le gite della domenica fuori porta e le prime code sulle strade.
Curiosamente proprio nel 1955 per la prima volta la Fiom-Cgil, il sindacato degli operai social comunisti, che aveva il suo zoccolo duro alla Fiat, subì una dura sconfitta alle elezioni per le commissioni interne, venendo superata dalla Cisl. Tanto che l’Europeo titolò beffardamente: «Meglio una 600 oggi che la rivoluzione domani».
La storia del rapporto tra italiani e automobili continuò ad accompagnare le evoluzioni sociali e politiche del Paese. Se la Seicento era la macchina del maschio capofamiglia, la Nuova Cinquecento – più economica (costava 490 mila lire), più manovrabile e più sportiva -, presentata sul mercato nel 1957, diventò anche l’automobile della moglie e della donna evoluta. E poi dei figli, che sui sedili non ribaltabili di quelle magnifiche utilitarie conobbero il rock d’oltre Oceano e sperimentarono la rivoluzione del Sessantotto, le proteste anti-Vietnam, le occupazioni delle scuole e le prime indimenticabili, anche se non comodissime, esperienze sessuali.
E l’auto si trasformò definitivamente in uno status symbol, come testimonia il film «Il medico della mutua» di Luigi Zampa, del 1968, che mise in scena l’ascesa sociale e professionale del dottor Guido Tersilli (Alberto Sordi) in parallelo con i suoi mezzi di trasporto, dalla Lambretta a due ruote alla Seicento comprata a rate fino alla «fuoriserie, rossa, decappottabile, che tutti devono invidiarmi!».

(Il Messaggero, 27 dicembre 2012)

 

Il libro

«L’Italia a quattro ruote. Storia dell’utilitaria» (il Mulino, pp. 265, euro 24) è stato scritto da Daniele Marchesini, già docente di storia contemporanea all’Università di Parma. In nove capitoli, con l’ausilio di un interessante estratto iconografico, l’autore ripercorre l’epopea della conquista degli italiani di un posto in… Autosole. Dalla Balilla nera degli anni Venti alla Cinquecento degli anni Sessanta.

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Taviani & Scalfaro. Il ritorno del Centro nel mirino degli storici

di Mario Avagliano

C’è un ritorno del centro cattolico anche nella storiografia? Il nesso con la “salita” in campo di Mario Monti è casuale, ma in effetti tra gli storici si registra un rinnovato interesse per alcuni personaggi centristi, allievi di quell’Alcide De Gasperi al quale si richiama il professore della Bocconi. Due figure in particolare, che hanno segnato la storia italiana, sono finiti di recente sotto le luci dei riflettori: Paolo Emilio Taviani e Oscar luigi Scalfaro.
Il genovese Taviani, il cui padre Ferdinando militava nella Dc di Romolo Murri e nel Ppi di don Luigi Sturzo, maturò l’opposizione al fascismo all’interno dei giovani universitari cattolici della Fuci, fino all’adesione alla Resistenza. L’incontro con De Gasperi convinse il giovane brillante docente, titolare di ben tre lauree (giurisprudenza, scienze sociali e lettere), a dedicarsi anima e corpo alla missione di unire politicamente i cattolici per renderli protagonisti del futuro del Paese, come si racconta nel libro «Paolo Emilio Taviani nella cultura politica e nella storia d’Italia» (Le Mani, pp. 325, euro 19), a cura di Francesco Malgeri e con contributi di vari studiosi.
Un’interessante mostra al Museo Storico della Liberazione di via Tasso, aperta al pubblico fino al 5 marzo 2013 e intitolata «Il partigiano Pittaluga», nome di battaglia di Taviani, illustra con immagini e documenti anche inediti le varie fasi dell’esistenza del grande politico, che fu membro della Costituente e più volte ministro, soffermandosi in particolare sul periodo della Resistenza. «Taviani guidò l’insurrezione di Genova contro i nazifascisti – spiega il curatore Antonio Parisella – memore dell’avvertimento mazziniano sul pericolo della libertà avuta in dono. Fu lui a scrivere materialmente il proclama per l’insurrezione e a comunicare alla radio la liberazione della città da parte dei partigiani».
Nella vita politica di Taviani, che fu anche presidente del Museo di via Tasso, vi sono alcuni episodi significativi: il suo no al governo Tambroni con i voti del Msi, la sua iniziativa nel 1973 quale ministro dell’Interno di promuovere lo scioglimento d’autorità di Ordine Nuovo, il sostegno a Moro e all’apertura al centrosinistra e la partecipazione il 25 aprile 1994, dopo la vittoria di Berlusconi, quale oratore ufficiale alla grande manifestazione indetta dalle organizzazioni resistenziali.
Un altro allievo di De Gasperi fu il novarese Oscar Luigi Scalfaro, altro membro dell’Assemblea Costituente che partorì la carta costituzionale, primo capo dello Stato della Seconda Repubblica e anche lui non sospettabile di simpatie verso Berlusconi. È uscita in questi giorni in libreria la sua prima biografia: «Scalfaro. L’uomo, il presidente, il cristiano» (Edizioni San Paolo, pp. 268, euro 19). L’autore Giovanni Grasso ha ricostruito mirabilmente la vicenda di questo esponente dc, al quale De Gasperi in una delle sue ultime lettere scrisse: «perché non ci diamo del tu se ci vogliamo tanto bene?».
Scalfaro fu sicuramente un arcicattolico. Fu il suo vescovo ad insistere perché il giovane magistrato si presentasse alle prime elezioni dopo il fascismo. Ma fu anche un politico laico, convinto della netta separazione tra Chiesa e Stato. Un episodio raccontato da Grasso è illuminante a tal proposito. Siamo nel 1987. De Mita fa sapere a Scalfaro, ministro dell’Interno, che il suo passaggio al ministero dell’Istruzione sarebbe stato molto gradito dal Vaticano. La risposta di Scalfaro è: «In Vaticano ci vado solo per la Messa… nutro tutto il rispetto per vescovi e cardinali, ma escludo che debbano essere inseriti in queste faccende».
Per questo motivo Scalfaro negli anni della Seconda Repubblica non ebbe timore a schierarsi contro la linea della Cei, tracciata dal cardinale Camillo Ruini, che, preso atto della fine della Dc, affermava un equilibrio tra i due poli, ma praticava una vicinanza con quello guidato da Silvio Berlusconi. Una posizione di laicità che, afferma nella prefazione il ministro Andrea Riccardi (che, oltre ad essere un apprezzato storico, è uno dei protagonisti del nuovo centro montiano in formazione), lo portò a scontrarsi frontalmente con la Segreteria di Stato della Santa Sede, guidata dal cardinale Angelo Sodano, e non a avere remore, lui che era stato un fiero anticomunista, nel dare per la prima volta nella storia d’Italia ad un ex pci, Massimo D’Alema, l’incarico di formare il governo.

(Il Messaggero, 5 gennaio 2013)

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