Storie - Shoah da riscrivere?

di Mario Avagliano

È da riscrivere, o quanto meno da sottoporre a revisione, la storia dell’universo concentrazionario messo in piedi dai nazisti e dai loro alleati durante la Seconda guerra mondiale? Le cifre dei siti utilizzati per perseguitare e uccidere gli ebrei potrebbero essere notevolmente più alte di quanto finora stimato, addirittura più del doppio. È quanto emerge da un nuovo studio realizzato dall'Holocaust Memorial Museum di Washington, di cui ha dato notizia il quotidiano inglese Independent.

La ricerca, chiamata “the Encyclopedia of Camps and Ghettos”, è ancora in corso e sarà terminata e pubblicata solo nel 2025, ma i ricercatori hanno già catalogato i campi di lavoro forzato, di prigionia e di sterminio (e i ghetti) creati dal regime di Hitler e dai Paesi satellite, arrivando a identificare oltre 42.500 siti, rispetto agli oltre 20mila in precedenza conosciuti.
I ricercatori dell'Holocaust Memorial Museum stimano che siano state tra 15 e 20 milioni le persone che vennero uccise o imprigionate nei centri allestiti dai nazisti o dai governi alleati nei Paesi occupati, dalla Francia alla Romania, compresa l’Italia.
«I risultati della nostra ricerca sono scioccanti - ha dichiarato all'Independent Geoffrey Megargee, direttore dello studio - abbiamo messo insieme i numeri che nessuno aveva registrato finora, anche quelli riguardanti il sistema dei campi che erano stati studiati finora, e molti di questi non risultavano. C'è una tendenza a vedere l'Olocausto solo come Auschwitz e forse qualche altro posto, mentre è importante capire che il sistema era molto grande e complesso, che molte più persone ne erano a conoscenza e vi hanno preso parte, che rivestiva un ruolo centrale nel sistema di potere nazista e inoltre che diversi Paesi avevano una propria rete di campi».
I punti interrogativi sono però molti. Si tratterà di capire i criteri di catalogazione adottati dall'Holocaust Memorial Museum e le categorie di prigionieri e perseguitati inclusi nel database. Insomma, la ricerca continua.

(L'Unione Informa, 12 marzo 2013)

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Libri e giornali, l'ossessione del Duce

di Mario Avagliano

L’abitudine delle note a margine a matita blu, da pedante maestrino di provincia, e la forma mentis da giornalista, Benito Mussolini non le perse mai, neppure quando l’Italia divenne un “Impero”. Anzi, durante tutto il Ventennio il duce coltivò una vera e propria ossessione per l’editoria. E forse anche per appagare le sue ambizioni d’intellettuale autodidatta, riservò una parte della sua attività quotidiana al monitoraggio della stampa e dei libri in uscita. Nessun capo del governo europeo e nessun dittatore, compresi Hitler, Stalin e Franco, dedicarono una simile attenzione (come rilevò anche il capo della polizia Carmine Senise) alla produzione editoriale del proprio paese.

Insomma il duce si comportò da severo controllore dell’editoria italiana, sempre attento a cosa si diceva e soprattutto a cosa si scriveva, come ci racconta Guido Bonsaver nel suo nuovo libro Mussolini censore. Storie di letteratura, dissenso e ipocrisia (Laterza, pp. 231, euro 18). E così, quando riceveva segnalazioni su libri da parte dalle strutture ministeriali, le esaminava con cura e vergava il suo responso, seguito dall’iniziale «M». Oppure ordinava alle prefetture l’immediato sequestro di un volume o che il funzionario di turno comunicasse a editori e scrittori la sua volontà.
L’apparato censorio diretto dal duce ebbe come prima vittima l’opposizione intransigente di Piero Gobetti e dell’editoria di parte socialista. Gobetti, che aveva fondato l’omonima casa editrice e dirigeva il periodico “La Rivoluzione Liberale”, era considerato da Mussolini uno dei suoi più pericolosi nemici. Il duce si occupò ripetutamente di lui, chiedendo al prefetto di Torino di rendergli la vita “difficile”, fino all’atto finale: la “diffida a cessare da qualsiasi attività editoriale”, che costrinse il suo giovane oppositore ad emigrare a Parigi.
A partire dal 1925-1926, quando il potere di Mussolini si fu consolidato, egli strinse rapporti controversi con gli editori più importanti, da Arnoldo Mondadori (che finanziava il suo movimento fin dal 1919) a Bompiani, e con personalità della cultura italiana, come Brancati, Moravia, Pirandello, Vittorini e altri. Ma continuò ad esercitare con pignoleria un’opera di censura, per motivi di opportunità politica, di decoro morale e, a partire dalla seconda metà degli anni Trenta, anche di razzismo.
Nel 1934 fu la pubblicazione di Sambadù, amore negro della scrittrice Maria Volpi (in arte Mura) a provocare la sua sdegnata reazione e la direttiva a tutte le prefetture di sorvegliare le pubblicazioni che avvenivano nei territori di competenza sotto il profilo della decenza morale.
Ma la storia di Mussolini censore non è la storia di contrapposizione tra un regime burbero e liberticida e gli intellettuali oppositori. Già nel 1975, lo storico italo-americano Philip Cannistraro, nel saggio La fabbrica del consenso. Fascismo e mass-media, si soffermò sulle enormi dimensioni della «zona grigia» della cultura italiana, cioè di quell’ambigua, larga fascia di intellettuali che navigavano a metà tra collaborazionismo e opposizione. Un caso interessante è quello di Elio Vittorini, l’autore del più famoso romanzo censurato nell’Italia fascista, Conversazione in Sicilia, di cui Bonsaver ricostruisce il sofferto passaggio dalla militanza fascista, con la protezione di Alessandro Pavolini, sino alla disillusione e all’aperto antifascismo.
Questo saggio ci aiuta a capire, una volta di più, che durante il fascismo, anche nel settore dell’editoria il regime godette dell’apporto di schiere di intellettuali, chi in convinta militanza, chi per quelle inevitabili incrostazioni di parassitismo che ogni centro di potere chiama a sé, chi semplicemente accettando di fare il proprio lavoro nel contesto di un’Italia fascista. In un simile quadro, i concreti atti di protesta da parte di personaggi come Piero Gobetti, Roberto Bracco, Benedetto Croce e gli editori Laterza risaltano ancor di più, proprio perché appaiono come “picchi isolati in una distesa di piatto conformismo e di compromessi opportunistici”.
La censura riguardò tutti i campi del vivere civile e toccò il suo culmine con le leggi razziali del 1938 e la successiva “bonifica” dalle librerie, dalle biblioteche e dai programmi scolastici dei testi di autori ebrei e il divieto per questi di pubblicare libri. Negli anni di guerra, poi, oggetto del controllo del duce e dei suoi funzionari fu anche quello che oggi si chiamerebbe politically correct. Così quando nel gennaio 1941 Luigi Pirandello chiese l’autorizzazione a una trasmissione radiofonica della sua commedia Come tu mi vuoi, oltre al passaggio dal “lei” al “voi”, gli fu ordinato di eliminare ogni riferimento alla brutalità dei soldati austriaci e tedeschi durante la prima guerra mondiale. Per riguardo all’alleato Adolf Hitler, che con le sue truppe uncinate stava mettendo a ferro e a fuoco mezza Europa.
Dopo la caduta del fascismo del 25 luglio 1943 e la violenta stagione di Salò, “l’Italia del libro – come osserva Bonsaver – sopravvisse al proprio dittatore-censore e dimenticò presto i propri trascorsi durante il Ventennio”. Editori e intellettuali si rifecero la verginità e molti di loro passarono nelle file dell’antifascismo più acceso, cancellando le tracce del loro oscuro passato.

(Il Mattino, 7 aprile 2013)

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Storie - La strada a Salerno intitolata a Sabato Visco primo firmatario dell'infame Manifesto della razza

di Mario Avagliano

“Cancellare le tracce” s’intitola un libro di Pierluigi Battista edito nel 2007 da Rizzoli. E in effetti alcuni dei protagonisti del razzismo e dell’antisemitismo di marca fascista hanno così bene celato o corretto il loro passato, che dopo la loro scomparsa sono stati celebrati con tutti gli onori dai loro territori di origine o dalle università o accademie in cui avevano operato.

È il caso di Sabato Visco, nato a Torchiara, in provincia di Salerno, il 9 aprile 1888 e morto a Roma il 1° maggio 1971, che non fu solo un illustre fisiologo e nutrizionista (direttore dell’Istituto di fisiologia generale dell’Università di Roma e dell'Istituto nazionale di biologia del Cnr) ma anche uno dei dieci scienziati firmatari del documento “Il Fascismo e i problemi della Razza”, pubblicato il 14 luglio 1938, conosciuto anche come “Manifesto della Razza”, e uno dei principali teorici della corrente nazional-spiritualistica del razzismo fascista.
Dal marzo 2006 una strada di Salerno è a lui intitolata, nel quartiere di Pastena, nella zona orientale della città, tra via San Leonardo e via Gandhi, per decisione dell’allora giunta municipale di centrosinistra guidata dal sindaco Mario De Biase, con tanto di avallo della Soprintendenza Baaas, della Società di Storia Patria e, ovviamente, della commissione toponomastica.
Visco fu una figura di primo piano dell’antisemitismo fascista: fu capo dell'Ufficio per gli studi e la propaganda sulla razza del Minculpop e membro del Consiglio superiore della demografia e della razza e girò in lungo e in largo l’Italia per diffondere il verbo razzista. In un intervento alla Camera, nella primavera del 1939, dichiarò che l'università italiana perdeva i docenti ebrei «con la più serena indifferenza», e che anzi ne guadagnava in «unità spirituale».
Dopo la liberazione, fu solo sfiorato dal processo di epurazione ed ebbe la faccia tosta di sostenere che si era opposto al Manifesto. Peraltro nel 1946 in difesa di Visco si mobilitarono ventidue docenti in tutta Italia, firmando un appello al ministero della Pubblica istruzione per la sua riassunzione. Non avevano fatto altrettanto nell’autunno del 1938, in favore dei colleghi ebrei espulsi dalle università.
Nel 2006 l’intitolazione della strada al “barone di razza” Sabato Visco passò sotto silenzio, senza proteste da parte di nessuno. Fino a quando, qualche giorno fa, un lettore del “Corriere del Mezzogiorno” non ha scritto al quotidiano, denunciando il fatto. E’ subito scoppiata la polemica. Nico Pirozzi e Lucia Valenzi della Fondazione Valenzi hanno immediatamente scritto all'amministrazione comunale: "Appare davvero singolare che, tra tanti nomi, che hanno reso lustro alla città di Salerno, si scelga proprio quello di un uomo moralmente responsabile della morte di migliaia di ebrei italiani, di cui almeno quaranta campani. Quel nome è un insulto alla memoria degli ebrei e di quanti hanno sofferto a causa delle leggi razziali".
È partita anche una petizione popolare on line per intitolare la strada non allo scienziato razzista ma al vigile del fuoco salernitano Marco Matteucci, morto durante le operazioni di salvataggio dell’alluvione di Sarno del 1998.
Il nostro auspicio è che l’attuale amministrazione comunale di Salerno, guidata da Vincenzo De Luca, provveda subito a cambiare il nome della strada, con pubbliche scuse. Magari organizzando in occasione del 75° delle leggi razziali (a novembre prossimo) un grande convegno, con la partecipazione delle scuole salernitane, per far conoscere chi era davvero Sabato Visco. E come è riuscito a “cancellare le tracce”.

(L'Unione Informa, 16 aprile 2013)

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Storie - La guerra di Claudio, il finanziere buono

di Mario Avagliano

Nel pieno della bufera razzista e della caccia agli ebrei, in Italia vi furono funzionari delle forze dell’ordine che con dignità, altruismo e coraggio si opposero al disegno nazifascista. Una figura poco conosciuta è quella del finanziere Claudio Sacchelli, al quale di recente il Museo Storico della Guardia di Finanza ha dedicato una monografia, “La guerra di Claudio”, a cura di Luciano Luciani e Gerardo Severino.

Sacchetti, dopo l’8 settembre del 1943, trovandosi di stanza a Villa di Tirano, in Valtellina, in territorio di frontiera, aderì alla brigata partigiana locale “Gufi” e collaborò con l’organizzazione clandestina di assistenza agli ebrei messa su da Armida Morelli e Arturo Borserini, aiutando diversi perseguitati politici e molti profughi ebrei, quasi tutti provenienti da Balcani e internati tra il 1941 e il 1943 ad Aprica, ad espatriare nella vicina Svizzera, per sfuggire alla cattura da parte delle SS e della polizia fascista. Il finanziere inoltre ospitò e nascose a casa sua due anziani coniugi israeliti, facendoli passare per i genitori della moglie.
La sua attività “antitedesca e antifascista” purtroppo fu scoperta, forse su delazione anonima, e il 7 aprile 1944 Claudio Sacchetti fu arrestato dalle autorità tedesche e rinchiuso in carcere. Quindi fu deportato nel campo di concentramento di Fossoli, il 21 luglio trasferito a Bolzano, nel blocco D, destinato ai deportati politici con il triangolo rosso, e infine il 5 agosto destinato al lager di Mauthausen, dove morì il 1° maggio 1945, pochi giorni prima della liberazione.
A Claudio Sacchetti è stata concessa l’anno scorso la medaglia d’oro al merito civile alla memoria dal presidente della Repubblica Giorgio Napolitano. Un partigiano da ricordare, alla vigilia del 25 aprile.

(L'Unione Informa, 23 aprile 2013)

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Album di famiglia con nazi-genitori

di Mario Avagliano

Che cosa hanno in comune il fine intellettuale Günter Grass, premio Nobel della letteratura, e l’ispettore di polizia Derrick, alias Horst Tappert, l’attore che lo ha interpretato nelle celebre serie tv andata in onda dal 1974 al 1998? Entrambi avevano un passato nazista. E anche l’alter ego dell’ispettore, al pari di Grass, a venti anni fece parte delle SS, come ha riportato qualche giorno fa il Frankfurter Allgemeine Zeitung.

La notizia non deve aver sorpreso più di tanto i tedeschi, giunta com’è a cavallo dell’inaspettato successo della fiction Unsere Mütter, unsere Väter, ovvero Le nostre madri, i nostri padri, trasmessa sullo Zdf, il secondo canale tv tedesco, che secondo il settimanale Der Spiegel, grazie ad una martellante pubblicità, è già stata vista da più di 20 milioni di telespettatori.
Tre puntate dirette dal giovane regista Philipp Kadelbach, per un totale di 270 minuti, che hanno scosso il pubblico e provocato i commenti di critici cinematografici e di storici, provando a raccontare il passato scomodo e la complicità ai crimini del nazismo da parte dei tanti mamma e papà dei tedeschi di oggi. Sulla scia della serie tv, il popolare giornale berlinese Bz ha pubblicato tre pagine di confessioni di cento cittadini della capitale sotto il titolo “Cosa hai fatto tu”, illustrato da un elmetto con la svastica nazista.
Nel dopoguerra il processo di Norimberga condannò a morte i capi del nazismo, attribuendo le responsabilità essenzialmente ad Adolf Hitler e ai gerarchi del partito e delle SS. E così a lungo la storiografia tedesca ha ignorato le colpe della popolazione e perfino della Wehrmacht, l'esercito.
La correzione di rotta degli storici, che nell’ultimo ventennio hanno approfondito con studi, convegni e mostre il rapporto morboso che legò i tedeschi al nazismo, ora approda anche in tv. Il successo di pubblico della serie televisiva è nell’aver saputo confezionare, con i cliché di una normale fiction, un prodotto che mischia eventi storici reali e vicende private romanzate, narrando gli eccidi di civili compiuti dalla Wehrmacht sul fronte orientale e la complicità dei normali cittadini allo sterminio degli ebrei.
La fiction segue le vicende di cinque giovani berlinesi, tre ragazzi e due ragazze, che si trovano di fronte alle barbarie dei loro connazionali nazisti. Il messaggio di fondo è che le colpe non riguardarono solo i governanti di allora. I cattivi non furono sempre dei mostri riconoscibili, ma in moltissimi casi erano cittadini comuni, come aveva già scritto Hanna Arendt nel suo libro La banalità del male. Così nel film la bella e seducente infermiera, che all’apparenza sembra simpatica e dolce, non esita a denunciare la sua dottoressa perché ebrea, causandone la deportazione ad Auschwitz.
La serie televisiva ha anche provocato una polemica internazionale. I partigiani polacchi, infatti, vi vengono infatti dipinti come antisemiti, permettendo ad esempio che un treno proceda verso i campi di concentramento, nonostante intuiscano la presenza di ebrei sui vagoni. Alcune associazioni polacche hanno rivolto un appello al ministro degli Esteri Radoslaw Sikorski, chiedendo di adottare misure decise contro la diffusione di questa "serie televisiva diffamatoria". E il settimanale Uwazam Rze, in segno di protesta, ha sbattuto in copertina un fotomontaggio irriverente della cancelliera Angela Merkel vestita col pigiama a righe dei deportati nei lager e con il filo spinato sullo sfondo, titolando: "Falsificazione della storia: come i tedeschi si sono resi vittime della seconda guerra mondiale”.
Le polemiche hanno indotto l'ambasciatore polacco in Germania, Jerzy Marganski, a scrivere una lettera alla Zdf in cui spiega che "l'immagine della Polonia e della resistenza polacca agli occupanti tedeschi, così come raccontata dalla serie, è stata percepita dai cittadini polacchi come ingiusta e offensiva" e lamentando l’omissione di qualsiasi riferimento alla rivolta di Varsavia del 1944, in cui duecentomila civili polacchi persero la vita, di cui molti prestarono aiuto agli ebrei.
In Italia, Einaudi propone proprio ora il libro dello storico tedesco Götz Aly Perché i tedeschi? Perché gli ebrei? (pp. 284, euro 32), in cui tira in ballo il passato nazista di suo padre Ernst e dei suoi nonni e zii, spiegando attraverso le proprie vicende familiari come i tedeschi hanno sostenuto fino all’ultimo Hitler ed erano partecipi della Shoah. Da parte sua il settimanale inglese The Economist, in un articolo intitolato “Bentornati al Terzo Reich”, si interroga sullo strano fenomeno della ricomparsa sulla tv tedesca di veterani della seconda guerra mondiale che, dopo il successo di Le nostre madri, i nostri padri, sono invitati sempre più spesso nei talk show per raccontare il loro disagio e come fossero stati “costretti” a uccidere ebrei.

(Il Mattino, 3 maggio 2013)

Storie – Umberto Saba e il sogno di Hitler

di Mario Avagliano

"A quelli che credono ancora che Adolfo Hitler… abbia almeno amata la Germania, racconto qui qual è stato veramente il suo Sogno. Ridurre la Germania un mucchio di macerie; e, fra nuvole di gas asfissianti, rimproverando ai tedeschi di averlo – per colpa degli ebrei – tradito, salire EGLI al cielo, in una specie di apoteosi, circondato dal fiore delle più giovani e fedeli S.S. Questo sogno egli lo ha sognato così profondamente … che si può dire che egli abbia vinta – almeno in parte – la SUA guerra”. Così scriveva Umberto Saba in Scorciatoie e Raccontini, pubblicato nel 1946.

Non molti sanno che il grande poeta triestino fu uno dei primi intellettuali europei ad interrogarsi sul nazismo e la Shoah. Impagabile il ritratto di Hitler “eseguito nel 1933” e proposto in questa stessa opera: “Con quei baffetti sotto il naso, e quella smorfia facciale, come fiutasse sempre… un cattivo odore”.
“Accanto alla metafisica post-Auschwitz di Primo Levi - come ha osservato acutamente Ettore Janulardo, in un saggio apparso sulla rivista Studi e ricerche di storia contemporanea - si situa la prosa lirica post-Majdaneck di Umberto Saba”.
Majdaneck era un piccolo campo di concentramento tedesco, sito a Lublino, in Polonia: il primo scoperto dagli Alleati. Il 22 luglio 1944 vi giunsero le prime pattuglie russe, trovandovi qualche migliaio di sopravvissuti. Mauthausen, Dachau, Buchenwald, Auschwitz erano allora sconosciuti. Costituito nel 1941, vi transitarono circa 300 mila deportati, di cui il 40 per cento ebrei di varie nazionalità. Campo di concentramento e di sterminio, fu un sito di morte con ogni mezzo: gas, armi da fuoco, impiccagioni. Vi morirono circa 80 mila persone.
Majdaneck è per Saba il simbolo della vicenda concentrazionaria, l’inizio della conoscenza da parte dell’umanità degli orrori del nazismo (quello che è ora Auschwitz). Egli in Scorciatoie e Raccontini si confronta con l’annullamento della persona al tempo dei lager: “Dopo Napoleone ogni uomo è un po’ di più, per il solo fatto che Napoleone è esistito. Dopo Majdaneck…”
Quanto alla vicenda italiana, Saba è più indulgente del suo amico Giacomo Debenedetti, come ha rilevato di recente Alberto Cavaglion sulla rivista storiAmestre. Il poeta triestino scrive che “Gli ebrei italiani non potevano fare all’Italia (in quanto ebrei) né bene né male. Mediterranei come la maggioranza, viventi in Italia da secoli o da millenni; c’è – con qualche eccezione – meno diversità fra un italiano ebreo e un italiano non ebreo, che non, p. es., fra un bresciano e un calabrese”.
A differenza di Debenedetti, Saba sostiene che in Italia non vi era stato bisogno di difendersi dall’antisemitismo: “non c’è mai stato in Italia – tolti gli anni dell’agonia del fascismo – un bisogno di difendersi da queste cose”. Una visione generosa dei fatti. Pesa in questo, probabilmente, la sua esperienza personale di discriminato, grazie al risolutivo intervento dello stesso Benito Mussolini. Per questo motivo, il giudizio sul duce, pur restando negativo, è più conciliante: per Saba infatti Mussolini non fu antisemita o sanguinario ma “carcerario”.
Si tratta di testi scritti, come Saba stesso annota, “sotto l’impressione, estremamente piacevole, della dissoluzione di un incubo”. Ma lo stesso poeta triestino avverte: “Dieci anni ancora di fascismo, nazismo, razzismo e si regrediva tutti (vero alla lettera) al cannibalismo”.

(L'Unione Informa e portale moked.it, 21 maggio 2013)

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Storie – Eichmann o la banalità del male

di Mario Avagliano

Mezzo secolo fa veniva pubblicato La banalità del male della filosofa tedesca Hannah Arendt, un libro che ha segnato la storia della cultura del Novecento, non senza accese polemiche. In occasione del cinquantenario, arriva in libreria Eichmann o la banalità del male (Giuntina, pagg. 214), che fa il punto sul dibattito suscitato da quell’opera, con un corredo di alcuni preziosi documenti e materiali inediti: l’intervista della Arendt allo storico tedesco Joachim Fest, che venne trasmessa da una radio bavarese nel 1964, con il carteggio inedito tra i due; alcune lettere e documenti della Arendt; la stroncatura del libro da parte del famoso storico e filosofo tedesco Golo Mann (terzo figlio di Thomas Mann); il saggio della scrittrice statunitense Mary McCarthy, che invece concordava con la Arendt (Sellerio ha proposto qualche anno fa l’interessante corrispondenza tra le due amiche); una ricca bibliografia sull’argomento.

Il saggio della Arendt vide la luce a seguito del processo a Gerusalemme del 1961 al criminale di guerra Adolf Eichmann, tenente colonnello e capo della sezione ebraica della Gestapo, che era stato catturato in Argentina nel 1960 dal Mossad e raccoglieva i reportage scritti dalla filosofa per il New Yorker. Il processo si concluse con la condanna a morte di Eichmann, che fu impiccato l’anno dopo. All’epoca fece scandalo il titolo del libro della Arendt e colpì molto anche il ritratto di Eichmann che esso proponeva, come un funzionario del male, un uomo apparentemente “normale” che sognava di far carriera uccidendo il maggior numero possibile di ebrei.
La polemica scoppiò anche attorno al significato simbolico del processo. In Israele molti, a partire dal primo ministro Ben Gurion, volevano che fosse un vero e proprio processo al sistema nazista, mentre la Arendt riteneva che bisognasse giudicare solo gli atti compiuti dal funzionario nazista.
Corrado Stajano, sul “Corriere della Sera”, recensendo il libro della Giuntina, ricorda che Fest in una sua opera (Incontri da vicino e da lontano, Garzanti) spiegò che in realtà la Arendt “non aveva minimamente inteso definire banale lo sterminio, né tantomeno il male in sé. Aveva semmai voluto descrivere quel male, nella sua terribile incarnazione in uno squallido personaggio”.
Nell’intervista inedita questa interpretazione del pensiero della filosofa tedesca viene fuori con nettezza e la Arendt ci chiama a riflettere sul mancato pentimento dei nazisti e sulla caratteristica che accomunava gli assassini di ebrei, privi di qualsiasi movente, e per questo “incomparabilmente più terribili di qualsiasi altro assassino”.

(L'Unione Informa e portale moked.it, 28 maggio 2013)

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Storie – Il 4 giugno del 1944 e la liberazione di Roma

di Mario Avagliano

Anniversari da ricordare. Il 4 giugno del 1944 Roma viene liberata dagli Alleati. “Si grida nella strada e si applaude al loro passaggio: Roma è libera e i tedeschi se ne sono andati”, è l’esplosione di gioia di Mario Tagliacozzo nel suo diario (Metà della vita, Baldini e Castoldi). “Non so più scrivere, non so più dire le mie impressioni: 9 mesi di lotte, di prigionia, di incubi, ed ora in un minuto tutto è finito. Roma è libera… anche noi siamo liberi… (…) La città echeggia di grida. Siamo tutti eccitati, siamo dei ragazzi scatenati e ci abbandoniamo alla nostra gioia, alla nostra emozione. Ho le lacrime in pelle; vorrei correre, vorrei uscire, vorrei parlare con tutti, vorrei poter gridare a tutti la mia gioia piena, sconfinata”.

In quelle ore, nelle menti e nei cuori degli ebrei romani rimbomba ancora l’eco della maxi-retata del 16 ottobre 1943 e della caccia all’uomo scatenata da nazisti e fascisti. E così la mattina dopo Tagliacozzo annota: “Troppe sono state le emozioni di ieri sera e ci sembra a tutti di sognare. Tutta la nera cappa di preoccupazioni e di terrori è caduta di colpo ed ora siamo liberi, possiamo respirare a pieni polmoni, gridare a piena voce, ridere e gioire. Se dovremo ancora soffrire, soffriremo come gli altri, ma non saremo più diversi dagli altri italiani e, senza temere, potremo gridare alto il nostro nome”.
E’ la fine di un incubo. Ma non la fine del dolore per la comunità romana: per i tanti, troppi parenti e amici scomparsi nella “notte e nebbia” del Reich. “Una nota di tristezza è in noi a velare la nostra gioia: mancano ancora Elena, Vito e Paolo; quando torneranno tra noi?”

(L'Unione Informa e portale Moked.it, 4 giugno 2013)

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