Quel geroglifico è un gossip. Storia del pettegolezzo

di Mario Avagliano

“E’ assolutamente mostruoso ciò che la gente fa al giorno d’oggi mentre passeggia: dire, alle spalle degli altri, delle cose che sono assolutamente vere”, scriveva Oscar Wilde. Religiosi, storici, filosofi, poeti, corvi, cronisti, diaristi, memorialisti, letterati, politici, scrittori, principesse. Nell’arco dei secoli il gossip ha avuto molti protagonisti, molte facce e molte identità. E la sua funzione non è stata sempre negativa, anzi storicamente è servito a mettere alla berlina gli eccessi del potere politico, economico o religioso. Proprio grazie alle sue caratteristiche, riassunte nella famosa aria rossiniana La calunnia è un venticello: “Piano piano, terra terra / Sotto voce sibilando, / Va scorrendo, va ronzando; / Nelle orecchie della gente / S’introduce destramente, / E le teste ed i cervelli / Fa stordire e fa gonfiar”. La storia del pettegolezzo o, se si preferisce, del rumor, come lo definiscono sociologi, antropologi e psicologi (parola latina diventata rumour in inglese britannico), è quindi la storia di uno dei vizi più antichi e più diffusi del mondo, come ci racconta il documentato saggio di Paolo Pedote, intitolato Gossip dalla Mesopotamia a Dagospia (Odoya, pp. 284, euro 18).

La tesi dell’antropologo Robin Dunbar, che ha studiato alcuni insediamenti di ominidi di 250 mila anni fa, è che l’uomo ha sempre favorito e promosso il pettegolezzo, fin dalla notte dei tempi. Facendo un rapido excursus storico, troviamo infatti forme primordiali di gossip nelle caverne e nei geroglifici, ma anche nella Bibbia (se ne parla per la prima volta verso la fine della Genesi, in un racconto legato alla discendenza di Giacobbe) e nel Nuovo Testamento, nel quale la maldicenza viene utilizzata contro Gesù di Nazareth dai suoi nemici.
I romani furono maestri del gossip. Celebri le frasi erotiche ritrovate sulle mura di Pompei, del tipo “Votate per Isidoro all’edilizia. Lecca la fica in modo strepitoso”. La letteratura latina utilizzò fin dall’inizio le voci di corridoio per intrecciare l’elemento politico (d’accusa e di critica) con quello poetico, deridendo le grandi cariche imperiali. Ne costituiscono un esempio mirabile i carmina triumphalia, che i legionari improvvisavano durante le cerimonie di vittoria. Come quelli piccanti che i soldati cantarono durante il trionfo di Giulio Cesare sui Galli, per sottolineare la sua relazione omosessuale con Nicomede IV Filopatore, l’ultimo re di Bitinia: “Cesare ha sottomesso le Gallie, Nicomede ha sottomesso Cesare. Ecco, ora trionfa Cesare, che sottomise le Gallie, ora trionfa. Nicomede che ha sottomesso Cesare, non riporta nessun trionfo”.
Il primo grande scrittore di gossip della storia è stato Gaio Svetonio Tranquillo, che nei suoi libri ha tramandato le storie segrete di dodici imperatori romani, raccontando del rapporto incestuoso di Caligola con la sorella Drusilla; delle strategie d’amore della regina Cleopatra, dalla voce suadente e dall’aspetto seducente, amante di Giulio Cesare e di Marco Antonio; delle avventure notturne di Messalina, moglie dell’imperatore Claudio, che appena poteva scappava verso le periferie della città e, sotto il nome d’arte di Licisca, si prostituiva con marinai e gladiatori.
Il pettegolezzo, racconta il saggio di Pedote, ha poi attraversato il Medioevo, svelando le nefandezze dei papi libertini (vedi il capitolo sulla Sacre e segrete stanze), per vestirsi dopo l’anno Mille da cantastorie, menestrello e giullare. Alla nascita della letteratura italiana, si è insinuato nella Divina Commedia di Dante e nella novella boccaccesca, ed è diventato la prova schiacciante nei processi dell’Inquisizione. Pettegoli sono stati grandi personaggi del Cinquecento come Niccolo Machiavelli, Francesco Guicciardini e Pietro Aretino, e principesse alla corte settecentesca di Luigi XIV.
Dopo l’invenzione della stampa periodica, il gossip ha fatto il suo ingresso nel giornalismo. Nell’Ottocento nascono le grandi riviste di costume come l’inossidabile Vanity Fair, e nel Novecento lo star system hollywoodiano inventa i columnists, che tengono in pugno le carriere dei divi più famosi. I pettegolezzi tornano in auge durante le dittature e la Guerra Fredda, ancora una volta per mezzo della delazione. Nel dopoguerra, con la dolce vita ecco arrivare il paparazzo; poi, con la rivoluzione sessuale e un rinnovato “comune senso del pudore”, il gossip diventa protagonista assoluto di riviste che si sfidano a colpi di esclusive milionarie.
Gli anni Novanta ci lasciano con il primo sexgate della storia, l’affaire Clinton-Lewinsky, e con il Grande Fratello, una trasmissione che è l’emblema del pettegolezzo. Oggi viviamo in un’era dai ruoli invertiti: in cui spesso sono i vip che inseguono il gossip, per sopravvivere. E il pettegolezzo è protagonista dell’informazione televisiva, della stampa di alto e basso livello e dei reality show. Si parla di gossip persino quando ci riferiamo a documenti segreti e alle indiscrezioni di Wikileaks e Vatileaks. Si fa gossip in politica, nel mondo della finanza e del business. E, nell’era della “multimedialità”, si fa gossip in modo ossessivo su internet, dai social network a you tube. Ma non è più l’epoca di Gaio Svetonio, di Dante, delle pasquinate o, per andare a tempi più recenti, dei Fellini, dei Flaiano o dei Pasolini. Non c’è più critica, in senso hegeliano. Come osserva Paolo Pedote, “ci sono solo i protagonisti di un potere che si alimenta attraverso l’arroganza dell’esserci a tutti i costi”. Il gossip è diventato “la cornice di un fermo/vuoto immagine che caratterizza la nostra contemporaneità”.

(Pubblicato in una versione più breve su Il Messaggero, 4 agosto 2013)

Lo strano patto tra Stalin, Hitler e Mussolini

di Mario Avagliano

Nell’agosto del 1939, quando fu siglato iI Trattato Molotov-Ribbentrop tra Terzo Reich e Urss, i giornali britannici pubblicarono irriverenti vignette che raffiguravano Adolf Hitler e Josif Stalin che si salutavano sul cadavere della Polonia, dandosi della “feccia della terra” e del “sanguinario oppressore dei lavoratori”, oppure si scambiavano una stretta di mano con la sinistra, mentre con la destra, dietro la schiena, impugnavano una pistola. Quando il 22 giugno 1941 le colonne corazzate tedesche irruppero in territorio sovietico, sembrò che il sarcasmo inglese avesse colto nel segno. E per oltre cinquant’anni una consolidata tradizione storiografica ha ribadito che quel trattato fu un accordo provvisorio attraverso il quale il Cremlino guadagnò il tempo sufficiente per prepararsi a sconfiggere il Moloch nazista. È andata proprio così? Un documentato saggio di Eugenio Di Rienzo e Emilio Gin, intitolato Le Potenze dell’Asse e l’Unione Sovietica. 1939-1945 (Rubbettino, pp. 514, € 17), avanza una tesi alternativa. Unione Sovietica e Germania, mentre si combattevano epicamente, sbandierando due visioni ideologiche opposte del mondo, trattavano sottobanco per formare una “Coalizione planetaria” destinata a comprendere anche Italia e Giappone e a distruggere il predominio mondiale anglo-sassone.
I due storici, facendo ricorso alle corrispondenze diplomatiche giapponesi, ai documenti di guerra dei National Archives di Washington, ai verbali del War Cabinet britannico, e spulciando i diari dei diplomatici italiani Luca Pietromarchi e Attilio Tamaro, ricostruiscono il lavorio dietro le quinte dell’Urss e delle forze dell’Asse, compresa l’Italia, teso a creare un blocco euroasiatico centrato sull'alleanza fra il nazionalsocialismo e il bolscevismo contro il nemico comune: la società capitalistico-borghese e l’odiato Occidente. L’idea accarezzata da Hitler, Stalin e Mussolini era quella di un’intesa politica invulnerabile sul piano militare, in grado di avere ragione della Gran Bretagna, con tutti i suoi Dominions, e degli Stati Uniti, con i Paesi dell’America Latina. D’altronde la Russia e il Reich, come aveva comunicato Ribbentrop a Molotov già nell’agosto del 1939, riportando testualmente una dichiarazione di Hitler, dovevano prepararsi per tempo a porre le basi di «una difesa emisferica contro l’aggressione americana che si sarebbe sicuramente materializzata tra 1970 e 1980».
Fu la polveriera balcanica a provocare la dissoluzione del blocco nazi-bolscevico e in particolare la disponibilità di Mosca a siglare il Trattato di amicizia e non aggressione con Belgrado, nell’aprile del 1941, alla quale Berlino rispose con l’immediata invasione della Jugoslavia. Nonostante la guerra, i rapporti sotterranei e clandestini tra Urss e forze dell’Asse proseguirono, soprattutto grazie alla mediazione del Giappone che aveva firmato, il 13 aprile 1941, un trattato di non aggressione con la Russia. Anche Palazzo Venezia e Palazzo Chigi svolsero un ruolo incisivo, dinamico e tutt’altro che marginale, iniziato subito dopo la fortunata contro-offensiva russa dell’inverno del 1941, per arrivare ad una pace di compromesso tra il colosso comunista e l’Europa sottomessa al Nuovo Ordine nazista.
Dopo aver assunto l’interim degli Esteri, il Duce scriverà tra il marzo e aprile 1943 due lunghe lettere a Hitler per spingerlo a «chiudere il capitolo russo». E sul tema tornerà ancora nei colloqui di Klessheim (7-10 aprile 1943), poi in quelli di Feltre (19 luglio), e, infine, nel mattino del 25 luglio, poco prima di essere arrestato, incontrandosi con l’ambasciatore giapponese a Roma. Mussolini insisteva sulla necessità di stipulare una tregua d’armi con Stalin e sapeva che, nonostante le apparenze, Hitler non era del tutto sordo alle sue richieste e che importanti gerarchi nazisti (Göring e Goebbels) erano favorevoli ad accettare quella soluzione. E il Cremlino non si sottraeva a quelle suggestioni. Insomma, il libro di Di Rienzo e Gin ci rivela che la «Grande Alleanza» antinazista era meno solida di quanto comunemente si creda (esattamente come non lo era l’Asse Roma-Berlino-Tokio) e che Stalin, sull’altare della realpolitik, prese in considerazione l’ipotesi di mollare Gran Bretagna e Usa al loro destino. Tutti questi sforzi fallirono. La “pace di Mussolini” non ebbe luogo e per fortuna non nacque l’Euroasia nazista-fascista-bolscevica immaginata dai leader dell’epoca. Il vecchio continente era però destinato ancora a soffrire e a dividersi. La fine del secondo conflitto mondiale portò alla “pace di Stalin” che, sui campi di battaglia e al tavolo della diplomazia, riuscì nel disegno di restituire alla Russia la statura imperiale dell’età zarista, provocando la lunga «guerra fredda», destinata a terminare solo nel novembre del 1989.

Storie – Stati Uniti 1938, una nuova terra promessa

di Mario Avagliano

Nelle pieghe della memoria, per molti versi sbiadita, delle leggi razziali in Italia, è conservata una vicenda individuale e collettiva: l’emigrazione forzata di circa duemila ebrei italiani negli Stati Uniti. Professori universitari, medici, avvocati, scienziati, giornalisti, artisti ma anche gente comune, costretti dai provvedimenti persecutori ad abbandonare la patria che li aveva disconosciuti come cittadini e a rifarsi una vita al di là dell’Oceano Atlantico, spesso ottenendo prestigiosi riconoscimenti. Dai premi Nobel Salvador Luria e Franco Modigliani all’architetto Giorgio Cavaglieri, dall’artista Leo Castelli al musicista Mario Castelnuovo Tedesco, dal cardiologo Massimo Calabresi al fisico Emilio Segrè e ai manager Giorgio Padovani, Giorgino Funaro ed Enrico Pavia. Il loro dramma è stata ricostruito nel libro America nuova terra promessa. Storie di ebrei italiani in fuga dal fascismo (Francesco Brioschi editore, pp. 192) di Gianna Pontecorboli, giornalista italiana che vive a New York e collabora con il Centro Primo Levi.
Attraverso le interviste ai testimoni e ai loro parenti, la Pontecorboli racconta la corsa ad ostacoli per ottenere il visto per l’America (impresa non facile, anche per l’opposizione di un potente funzionario americano, Breckinridge Long, ex ambasciatore a Roma e ammiratore di Mussolini), l’impatto con il nuovo continente, che non sempre li accetta bene, il legame indissolubile con l’Italia, l’adesione di molti di loro alla causa dell’antifascismo (ad esempio nell’ambito della Mazzini Society), il contributo dato alla Liberazione del nostro paese e al processo di ricostruzione ma anche la decisione della maggior parte di quegli italiani traditi di restare negli Stati Uniti, la nazione che aveva dato loro la possibilità di una vita dignitosa e senza persecuzioni. Una pagina di storia importante anche per comprendere, come scrive Furio Colombo nell’introduzione, le responsabilità dell’Italia e degli italiani non ebrei, senza indulgere, come si continua a fare, nell’auto-assoluzione. Tanto più in vista del 75° anniversario delle leggi razziali del novembre 2013.

(L'Unione Informa e portale Moked.it, 6 agosto 2013)

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Il narciso Curzio Malaparte, camaleonte dalle mille vite

di Mario Avagliano

Aveva fatto costruire una villa a Capri su un irto promontorio roccioso a picco sul mare e l’aveva battezzata «Casa come me». Qui nel 1944 Curzio Malaparte spesso incontrava Palmiro Togliatti oppure venivano a trovarlo alcuni giovani comunisti di Napoli, come Giorgio Napolitano, Eugenio Reale, Velio Spano. Ma a giugno, liberata Roma, Mario Alicata impose l’alt alla frequentazione, a causa dei trascorsi fascisti dello scrittore. È uno degli episodi inediti della vita del grande autore di Kaputt, di Tecnica del colpo di Stato e de La pelle raccontati nella monumentale biografia di Maurizio Serra, Malaparte. Vite e leggende, edita l’anno scorso in Francia e pubblicata ora anche in Italia per i tipi della Marsilio (592 pagine, euro 25). Un aneddoto rivelato proprio da Giorgio Napolitano, nel colloquio con Serra che chiude il volume.
Forte di testimonianze di prima mano e di una vasta documentazione d’archivio, tra cui i rapporti della polizia francese e alcune lettere di Henry Miller e di Céline, Maurizio Serra, ambasciatore italiano all'Unesco, ma anche storico della cultura, ne traccia un profilo esaustivo, in cui lo scrittore toscano, originario di Prato, appare da un lato un intellettuale «di respiro autenticamente internazionale», d’altro canto un «Narciso intriso della tragicità del mondo», un dandy gelido, anzi quasi «minerale», per il quale l’Io è il solo faro nella notte, e conta più di ogni cosa. Più delle donne e più della politica. Nazionalista e cosmopolita, pacifista e bellicista, élitario e populista, scrittore politico dalla nitida scrittura e romanziere dall’immaginazione barocca, arcitaliano e antitaliano, talvolta un po’ ciarlatano (scrisse e riscrisse più volte la sua autobiografia, farcendola di menzogne), Kurt Erich Suckert, divenuto dopo il 1925 Curzio Malaparte, non finisce di sconcertarci per la sua modernità e per le sue continue sfide a ogni convenzione. Ma Malaparte è anche un camaleonte dalle mille vite. E come altrimenti definire un intellettuale che fu interventista combattente nella Grande Guerra, sostenne con entusiasmo il fascismo rivoluzionario totalitario, ma al tempo stesso era amico di Piero Gobetti. Uno che diresse a soli 30 anni La Stampa, dalla quale fu cacciato perché ebbe una relazione con Virginia Agnelli, testimoniò in favore degli assassini di Matteotti, lodò Mussolini e i suoi gerarchi finché furono al potere, per poi denigrarli e presentarsi come un perseguitato dal regime dopo la caduta del fascismo, dichiarando a Togliatti nel 1944 che il comunismo era stato «motivo dominante di tutta la mia attività intellettuale». Né le giravolte politiche di Malaparte cessarono allora. Dopo il 1946 divenne anticomunista, denunciò il «fascismo degli antifascisti» e fu accanito supporter di Alcide De Gasperi alle elezioni del 1948. Concludendo la sua esistenza terrena nel 1957, esaltando Mao e il comunismo cinese, accettando la tessera del Pci, e in punto di morte forse convertendosi (come sostenne padre Lombardi) alla Chiesa cattolica. Malaparte disse, e la frase fa da sottotitolo al saggio di Serra, «Perderò a Austerlitz e vincerò a Waterloo». E in effetti, dopo la sua riscoperta in Francia, dove l’anno scorso gli sono stati dedicati appassionati convegni e il saggio di Serra ha vinto il Prix Casanova e il Prix Goncourt de la Biographie, ora lo scrittore toscano vive il suo momento di rinnovata gloria anche in Italia. Perché, come afferma Serra, esistono «molte ragioni, tutte legittime, per non amare Malaparte, uomo, scrittore e personaggio. Ma nessuna per negargli un posto di primo piano tra gli interpreti più singolari di un ventesimo secolo le cui inquietudini si prolungano nel nostro», profetizzando in anticipo la decadenza dell’Europa.

(Blog Mario Avagliano, 15 dicembre 2012, @ diritti riservati)

Storie – La famiglia Klein-Sacerdoti e il pacchettino che attraversò la guerra

di Mario Avagliano

Ci sono microstorie della Shoah che commuovono e appassionano in modo particolare. Una di queste, è la vicenda della famiglia Klein-Sacerdoti, raccontata da Giorgio Sacerdoti nel libro Nel caso non ci rivedessimo (Archinto), con l’ausilio di lettere dell’epoca.
I Klein sono di Colonia, in Germania, i Sacerdoti originari di Modena, ma vivono a Milano. Il destino delle due famiglie s’incrocia nel 1939 su un campo da tennis a Parigi, dove sboccia l’amore tra il giovane Piero Sacerdoti, dipendente della Ras assicurazioni, e l’affascinante Ilse Klein, segretaria d’ufficio. I due si sposano il 14 agosto 1940 a Marsiglia, nella Francia del Sud occupata.
Sono tempi bui. L’Europa è sotto il segno della svastica e delle persecuzioni. Dopo la Notte dei Cristalli del novembre 1938, i genitori di Ilse, l’avvocato Siegmund Klien e la moglie Helene Meyer, decidono di riparare ad Amsterdam, dove si trova già l’altro figlio Walter. Da qui intrecciano una complicata corrispondenza con la figlia (il servizio postale tra Olanda e Francia del Sud è sospeso), per il tramite di una cugina di Helene che vive in Svizzera, Anni, che da Zurigo smista le lettere.
Negli anni successivi anche in Olanda, a seguito dell’occupazione nazista, la situazione degli ebrei precipita. Walter nel maggio 1942 tenta di fuggire a Marsiglia, per raggiungere la sorella, ma viene catturato dai nazisti al confine con la Francia. Le sue lettere dal carcere sono cariche di disperazione. Piero s’adopera in ogni modo per salvarlo, ma il suo destino è scritto e la mattina del 26 agosto il giovane viene deportato ad Auschwitz, assieme ad altri 948 sfortunati.
La madre Helene per il dolore si ammala e il 14 gennaio 1943 muore in un ospedale di campagna, dopo aver tentato il suicidio. Qualche settimana prima, però, assieme al marito, avendo saputo che la figlia Ilse è incinta, ha fatto in tempo a confezionare amorevolmente un pacchettino con il corredino per il nipotino in arrivo, Giorgio Sacerdoti. Il pacchetto attraversa l’Europa in guerra e, dato per disperso, dopo tre mesi giunge incredibilmente a destinazione, quando la donna è già morta.
La scomparsa di Helene verrà nascosta ad Ilse dal padre per quasi un anno. Solo il 16 ottobre papà Siegmund, che sente la fine vicina, chiederà ai parenti di rivelare la verità ad Ilse. Tre giorni dopo verrà arrestato e dopo un paio di cartoline dal campo di raccolta di Westerbok, anche lui caricato come una bestia su un convoglio per Auschwitz, dove morirà all’età di 69 anni.
Intanto la giovane coppia costituita da Piero ed Ilse, con il piccolo Giorgio nato a marzo, fugge da Nizza in un villino sul lago Maggiore, unendosi ai genitori Sacerdoti, papà Nino e mamma Gabriella. L’incubo non è finito. Dopo l’8 settembre, anche in Italia parte la caccia all’ebreo. I Sacerdoti riescono fortunosamente a passare la frontiera svizzera a Vieggiù e poi si trasferiscono a Ginevra, dove trovano la sospirata salvezza. Ma l’orrore di quegli anni e la perdita di mezza famiglia segnerà per sempre la loro vita.

(L'Unione Informa e portale moked.it del 3 settembre 2013)

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La Rivoluzione Etica. Da Giustizia e Libertà al Partito d'Azione

di Mario Avagliano

«L’esperienza del Partito d’Azione è stata una luminosa meteora nella storia del nostro Paese. Eppure, la sua cultura, nonostante la breve vita, è quanto mai viva perché è una Scuola di Democrazia», si legge nel libro di Vittorio Cimiotta intitolato "La Rivoluzione Etica. Da Giustizia e Libertà al Partito d'Azione" (Mursia, pp. 370, euro 20). Un saggio importante che ripercorre le tappe salienti dell’esperienza politica di GL e del Partito d’Azione, e dei loro principi e idee, riconoscendone la grande validità anche nella società contemporanea in balia di una grave crisi morale e civile.

Il movimento Giustizia e Libertà, ricorda Cimiotta, venne fondato nel 1929 a Parigi da Carlo Rosselli e da altri fuoriusciti antifascisti con l’obiettivo di organizzare un’opposizione attiva ed efficace al regime di Mussolini, alternativa a quella comunista.
Dall’incontro tra giellisti, liberalsocialisti, sostenitori del liberalismo progressista gobettiano, esponenti del liberalismo amendoliano e del Partito Repubblicano, nacque nel 1942 la breve ma intensa esperienza politica del Partito d’Azione che, dopo la caduta del duce, organizzò bande partigiane, partecipò alla Resistenza con le Brigate Giustizia e Libertà e contribuì alla stesura della Carta Costituzionale.
Grandi personalità, come Mazzini, Salvemini, Gobetti, i fratelli Rosselli, Parri, Calamandrei e La Malfa, hanno lottato per dar vita a un modello di società basato sull’etica nella politica e nella comunità, di cui il giellismo e l’azionismo sono stati portatori ed esempi.
E il Partito d'Azione fu un lievito importante che nel dopoguerra, dopo il suo scioglimento, trasmigrò nel Pri così come nel Psi e nel Pci, immettendo in quei partiti motivi centrali della lotta politica democratica fino a far parlare nella storia italiana di una "fede azionista" sopravvissuta alla fine del partito.
"Il saggio di Cimiotta - scrive nella prefazione Nicola Tranfaglia - che è nello stesso tempo agile e aggiornato, ricco dei riferimenti storici necessari, rappresenta un contributo utile a introdurre per le nuove generazioni un mondo e un movimento che hanno costituito per molti decenni raggi di luce nella nostra storia".
Preziosa anche l'appendice finale, che propone le biografie di molti degli azionisti più famosi.

Vittorio Cimiotta è nato a Marsala (Trapani) e vive a Roma. È vicepresidente nazionale della FIAP (Federazione Italiana Associazioni Partigiane), fondatore della Federazione nazionale dei circoli storici Giustizia e Libertà, socio cofondatore della Fondazione Ernesto Rossi e Gaetano Salvemini di Firenze, membro del Comitato dei Garanti della rivista «Il Ponte» di Firenze fondata da Piero Calamandrei e infine componente del Consiglio Direttivo del Museo Storico della Liberazione di Via Tasso di Roma.

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Una vittoria amara. La corrispondenza di due coniugi resistenti dell'Italia del 1943-1945

Fu davvero amara la vittoria della guerra di Liberazione? Di certo non fu tutta rose e fiori, chewing-gum e caramelle, tricolori e bandiere a stelle e strisce. Ce lo raccontano due italiani resistenti di allora, protagonisti del libro Una vittoria amara (Marlin Editore, pp. 528, euro 18): il generale di brigata Giulio Cesare Tamassia, reduce della Grande Guerra, monarchico, anticomunista di ferro, tra i dirigenti del Fronte militare clandestino romano guidato da Giuseppe Montezemolo, e la moglie Bianca Mazzarotto, originaria di Rovigo, scrittrice d’impronta dannunziana ma più liberal del marito, collaboratrice del movimento partigiano in Veneto. Due esponenti di quella Resistenza militare o moderata (spesso l’uno e l’altra) per troppo tempo cancellata dai libri di storia e avvolta dal silenzio e dall’oblio.
A leggere la corrispondenza di Giulio e Bianca e le loro confessioni intime, risulta evidente che nella primavera del 1945 per molti italiani la gioia della riacquistata libertà ebbe un certo retrogusto asprigno, dovuto agli strascichi dolorosi della campagna d’Italia e alle violenze della guerra civile, ma anche alle case distrutte dai bombardamenti, ai parenti e agli amici morti, e alla difficile transizione verso la democrazia di un Paese tutto da ricostruire e in quel momento ancora sotto il giudizio (e sotto lo schiaffo) degli Alleati. Il libro segue, quasi sotto forma di cronaca, il tragico biennio che va dal luglio 1943 al maggio 1945. A scandire gli avvenimenti, è il sapiente intercalare nel carteggio tra i due coniugi e di altri brani tratti dai loro diari, amorevolmente raccolti e ordinati dal figlio Renato, terzo protagonista del racconto, anche se parlante solo per interposta persona, data la tenera età (era nato nel pieno della guerra, nel dicembre del 1940). Dopo l’8 settembre, è l’ora delle scelte per chi è di carriera militare o è sotto le armi. Il cinquantaduenne Giulio, che si trova a Trieste, potrebbe, come milioni di italiani dell’epoca, entrare nella “zona grigia” dell’equidistanza, oppure aderire alla neonata Repubblica Sociale. Invece decide di partecipare alla guerra di liberazione. I motivi principali sono la fedeltà al re, l’amor di patria e il desiderio di preservare l’«indipendenza dell’Italia» dall’invasore tedesco.

Il 20 settembre parte in treno per Roma e si unisce al Fronte militare clandestino. Tamassia, come Montezemolo, ritiene che nella capitale l’attività più importante da svolgere sia quella di sottrarre uomini alla Repubblica Sociale e svolgere un’efficace azione di spionaggio e di intelligence al servizio del governo del Sud, oltre che predisporre un piano per un trapasso indolore al momento dell’arrivo degli Alleati. «Quanto faccio – annota nel suo diario il 19 aprile 1944 – è assolutamente contrario alle inutili violenze e agli sciocchi delitti. Tende a ristabilire ordine disciplina possibilità di lavoro proficuo, restaurazione di valori morali. Chiedo e cerco l’indipendenza d’Italia e per essa la libertà più assoluta di scegliersi la via più conveniente per ritrovare la sua grandezza vera». Le azioni armate, quindi, almeno nel perimetro della città sono considerate «inutili» perché rischiano di provocare «solo dolorose rappresaglie». Cosa che puntualmente avviene dopo via Rasella, con l’eccidio delle Fosse Ardeatine. Particolare interessante: già nei giorni successivi, come annota Giulio, «C’è chi dice che il fatto è stato organizzato ad arte [dai comunisti] per toglier di mezzo vittime designate [in particolare gli esponenti di Bandiera Rossa e del Fronte militare clandestino] e per disturbare». Una falsa tesi che sarà ripresa più volte nel dopoguerra da estrema destra e estrema sinistra. I tedeschi e la polizia fascista lo ricercano attivamente. La sua prudenza lo salva. Più di una volta sfugge per miracolo alla cattura e ai rastrellamenti. La quarantacinquenne Bianca col piccolo “Renatino” ciondola tra Trento, Venezia e Scomigo, mai tranquilla, sempre rischiando la vita o la libertà, tra bombardamenti, colpi di mitraglia, attività di collaborazione alla Resistenza, corrispondenza con il marito.

Il ritratto dell’Italia in guerra che viene fuori dalle pagine di questo libro è terrificante. Venezia piena di barche, ma «tutte con la croce uncinata a coprire i segni di italianità!». Roma prigioniera, «piena di mendicanti che dicono: ho fame! con bambini in collo avvolti in poveri cenci», sotto l’incubo dei bombardamenti, tanto che «Molta gente durante la giornata si rifugia in Piazza san Pietro e vicino al Vaticano come a luoghi sicuri», ma comunque irridente: «Qualche bello spirito ha scritto a Porta Pia di notte: “Coraggio inglesi, i russi stanno arrivando a Porta Pia”». Uno dei temi più interessanti del libro è il tormentato rapporto con i tedeschi e con gli Alleati. Giulio Tamassia, dal punto di vista militare, ammira «le capacità di resistenza e di manovra dei tedeschi, infinitamente superiori nel campo tattico e nella rapidità di decisione». Ma ne depreca i modi e la brutalità. Quanto agli Alleati, il giudizio dei due coniugi è negativo. Nel mirino ci sono soprattutto i bombardamenti alle città: «Non sono gli italiani, ma i tedeschi che occorre battere». Il 4 giugno 1944 Roma viene liberata ma la guerra li terrà lontani ancora a lungo. Fino a quando il 30 aprile 1945, Bianca, commossa ed eccitata, a Scomigo, potrà finalmente tirare fuori le bandiere ed esporle alle finestre: «Pare un sogno! Tutto è andato benissimo, nel migliore dei modi che mai si potesse sperare, e l’insurrezione partigiana e popolare è stata una cosa meravigliosa». Quello stesso giorno Giulio annota nel suo diario: «Giustizia (o vendetta) è fatta: i capi del fascismo sono stati giudicati da cosiddetti tribunali del popolo e la folla sanguinaria e incosciente ha commesso atti di barbarie sui loro cadaveri. Doveva finire così».

Storie – Il buono e il cattivo. Il comandante di Auschwitz e l'ebreo che riuscì a catturarlo

di Mario Avagliano

Il buono e il cattivo. In «Il comandante di Auschwitz» (Newton Compton Editori), Thomas Harding, laureato in antropologia alla Cambridge University, già giornalista e film-maker, ha ricostruito le vite parallele di uno dei più spietati criminali nazisti e dell'ebreo che riuscì a catturarlo.
Da un lato Rudolph Hess (Höss, se si segue la grafia tedesca), classe 1901, volontario alla Grande Guerra ad appena 14 anni, iscrittosi al partito nazista nel 1922, sostenitore dell’antisemitismo e poi divenuto nel 1940 comandante di Auschwitz (dopo un’esperienza a Dachau e a Sachsenhausen), responsabile del massacro di oltre un milione di persone e freddo esecutore della “soluzione finale” voluta da Hitler.
Dall’altro Hanns Alexander, classe 1917, ebreo tedesco, cresciuto a Berlino, rifugiatosi in Gran Bretagna per sfuggire alle persecuzioni delle SS, in seguito arruolatosi nell’esercito inglese, con la matricola 264280, rischiando moltissimo (se catturato dal Reich, sarebbe stato considerato un traditore e quindi giustiziato). Il 12 maggio 1945 il tenente Hanns entrò in contatto con l’orrore della Shoah, entrando nel lager di Bergen-Belsen. Nell’immediato dopoguerra venne reclutato quale investigatore del I War Crimes Investigation Team, detto anche I WCIT, il pool creato per scovare e assicurare alla giustizia internazionale i gerarchi nazisti responsabili delle atrocità dell'Olocausto.
Ma l’ex kommandant di Auschwitz, che si era rifugiato sotto falsa identità in una fattoria di Gottrupel, è una preda difficile da stanare, e Hanns dovrà giocare d’astuzia e agire con determinazione per riuscire a catturarlo.
Un dettaglio interessante: Harding è il pronipote di Alexander, ignaro dell’avventuroso passato del prozio fino al giorno del suo funerale, il 28 dicembre 2006.

(L’Unione Informa e portale moked.it del 17 settembre 2013)

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