La sinistra italiana e gli ebrei

di Mario Avagliano

 

Lungotevere di Roma, 25 giugno 1982, nei pressi della Sinagoga. Un corteo di persone di passaggio urla: «Ebrei ai forni! W l'Olp! Morte a Israele» e poi lascia una bara davanti alle lapidi degli ebrei romani morti alle Fosse Ardeatine. Neofascisti o seguaci di Almirante? No, si tratta di militanti della Cgil, Cisl e Uil, nella capitale per i rinnovi contrattuali. Il rabbino Elio Toaff protesta e li definisce antisemiti, ma il segretario della Cgil Luciano Lama, invece che condannare quanto accaduto, giustifica i vergognosi slogan come comprensibili di fronte alla «guerra crudele scatenata dalle armate israeliane in Libano». D’altronde pochi giorni prima lo stesso Pci nella Direzione del 10 giugno 1982 ha accusato Israele di rasentare il «genocidio». È uno dei tanti episodi raccontati nel documentato saggio di Alessandra Tarquini intitolato «La sinistra italiana e gli ebrei. Socialismo, sionismo e antisemitismo dal 1892 al 1992» (Il Mulino, 22 euro), dal quale emerge che l’antisemitismo, a correnti alterne, ha allignato anche nella storia della sinistra italiana e non solo a destra, anche se vi sono stati pure diversi leader che viceversa hanno solidarizzato con gli ebrei.

Il rapporto tra la sinistra e gli ebrei è stato un po’ schizofrenico fin dalla fondazione del Psi nel 1892, data di inizio della indagine storica della Tarquini. I primi socialisti infatti minimizzano l’antisemitismo presente nella società, e questa sottovalutazione sarà una costante in quasi tutti i partiti di sinistra che nasceranno in Italia nei decenni successivi, convinti al pari di Cesare Lombroso, sulla scia del saggio di Karl Marx sulla questione ebraica, che la discriminazione verso gli ebrei sia superabile con l’affermazione di una società socialista.

Quando nel 1894 scoppia in Francia il caso del capitano Alfred Dreyfus, ebreo, accusato di spionaggio a favore dell’impero tedesco e per questo condannato ai lavori forzati, l’«Avanti!» si schiera per la colpevolezza di Dreyfus, addirittura sostenendo che un complotto della «bancocrazia giudaica» tentava di far evadere dall’isola del Diavolo il «capitano traditore». Solo dopo la celebre lettera di accusa alle gerarchie militari del gennaio del 1898 di Émile Zola al presidente della Repubblica Felix Faure il Psi diventa innocentista.

Dopo la nascita del sionismo, che sogna l’edificazione di una società socialista in Israele per gli ebrei, e fino alla Prima guerra mondiale, anche negli anni della direzione di Benito Mussolini, il quotidiano del partito socialista è un’importante voce di denuncia dell’antisemitismo nel mondo. Ad esempio, nell’autunno del 1913, l’«Avanti!» critica il linguaggio «violento» dell’«Osservatore romano» che ha definito il sindaco di Roma Ernesto Nathan «un volgare insultatore della nostra fede e delle nostre memorie», «un amalgama di giudaismo e massoneria».

Con l’ascesa del fascismo la sinistra italiana si occupa sempre meno della questione ebraica. Perfino dopo le leggi razziali varate dal regime di Mussolini, che colpiscono migliaia di persone, si levano poche voci in loro difesa, soprattutto quella del comunista Giuseppe Di Vittorio e del gruppo di Giustizia e Libertà, nel quale però militano numerosi ebrei. 

Anche nel dopoguerra, quando vengono alla luce gli orrori dei lager di sterminio e gli obiettivi della soluzione finale messa in atto dai nazisti con la complicità dei fascisti italiani, per anni a sinistra si ignorano le radici antisemite di queste azioni criminali e la Shoah viene equiparata a una forma di generica e certamente orribile «disumanizzazione», spesso senza far riferimento al genocidio degli ebrei, come nel film Kapò del regista comunista Gillo Pontecorvo. Anche Carlo Levi parla del lager come «il rifiuto dell’uomo da parte dell’uomo», senza soffermarsi sulle deliranti teorie antisemite del nazismo.

Alla loro uscita in libreria, opere simbolo della Shoah come «Il diario di Anna Frank» e «Se questo è un uomo» di Primo Levi (rifiutato per anni da Einaudi), se recensite dai quotidiani di sinistra, dall’Unità a Mondo Operaio, vengono elogiate per i loro aspetti letterari o di umanità, senza o con scarsissimi riferimenti all’antisemitismo e al genocidio di milioni di ebrei.

La Tarquini argomenta che pesa anche la posizione filopalestinese assunta dall’Urss. Anche a sinistra, dopo l’iniziale entusiasmo per la nascita di Israele nel 1948, col passare degli anni piovono critiche inaccettabili verso il governo israeliano, accusato di comportarsi come il nazismo nei confronti dei palestinesi. Durante la guerra dei Sei giorni, nel giugno del 1967, Antonello Trombadori scrive un articolo intitolato Da Anna Frank a Moshe Dayan indicando l’evoluzione di un popolo che è stato perseguitato e si nasconde «dietro l’antico e drammatico simbolo della stella di David». A suo avviso, Israele non è più la patria dei kibbutzim, ma uno Stato teocratico e razziale, che discrimina la minoranza araba e invocava le sofferenze subite per giustificare il proprio comportamento.

In quegli anni nella stampa di sinistra, si legge nel saggio, «i termini israeliano, sionista, ebreo vennero a sovrapporsi». Ancora nel 1974, quando un famoso sceneggiato televisivo su Mosè, interpretato da Burt Lancaster, viene trasmesso dalla Rai, un giornale di estrema sinistra, il «Quotidiano dei lavoratori», organo di Avanguardia operaia, protesta perché la tv pubblica avrebbe propagandato la «supremazia del popolo ebraico», in un certo qual senso giustificando «l’aggressività di Israele contro il popolo palestinese». Un attacco indegno che però non suscita grandi reazioni.

Peraltro anche nel Psi, che fino alla metà degli anni Settanta aveva una linea filoisraeliana, l’ascesa alla segreteria di Bettino Craxi comporta una brusca inversione di tendenza, con l’appoggio incondizionato all’Olp di Arafat. E ci vuole la caduta del muro di Berlino perché il Pci guidato da Achille Occhetto (poi diventato Pds), in particolare per merito di Piero Fassino, muti orientamento su Israele. Ma anche dopo il 1992, anno di conclusione del libro, in certe frange della sinistra estrema continueranno paragoni inaccettabili tra lo stato israeliano e i nazisti.

(Blog Mario Avagliano, 2020)

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“L'Italia tra le grandi potenze” di Elena Aga Rossi

di Mario Avagliano

Ancora oggi molte storie generali e libri di testo per studenti universitari continuano a descrivere l’Italia del dopoguerra come «vassalla» di Washington e totalmente subalterna alla politica americana e sottovalutano l’influenza sovietica sui partiti e sugli intellettuali italiani. Ma il leader democristiano Alcide De Gasperi fu davvero un burattino nelle mani del presidente americano Harry Truman, come lo descrivevano i manifesti di propaganda elettorale del Fronte Popolare alle politiche del 1948? E il segretario comunista Palmiro Togliatti cercò realmente una «via italiana» al socialismo?

A fare chiarezza sulla politica estera italiana è il saggio «L'Italia tra le grandi potenze. Dalla seconda guerra mondiale alla guerra fredda», appena uscito per i tipi del Mulino e opera di Elena Aga Rossi, una delle maggiori studiose della politica e dell'intervento degli Alleati in Europa e dell'influenza dell'Unione Sovietica in Italia nei primi anni della guerra fredda.

Sull'una e l'altra tematica Elena Aga Rossi, lavorando in più archivi, non solo italiani ma anche sovietici, americani e inglesi, ha prodotto alcune ricerche originali che hanno in più casi costituito punti di svolta sulla storia politica del nostro paese e ora trovano qui una sistemazione unitaria, che va dai piani alleati per la divisione dell'Europa, sullo sfondo della Campagna d'Italia, fino al ruolo di De Gasperi nella rottura con le sinistre del maggio 1947 e ai rapporti del Pci e del Psi con l'Unione Sovietica.

In realtà, l’appartenenza dell’Italia alla sfera d’influenza occidentale, data per certa durante la guerra dalle conferenze di Jalta e di Teheran, fu poi messa in discussione alla fine del 1947, non soltanto per l’ipotesi di un possibile colpo di mano comunista, ma soprattutto nel caso di una vittoria elettorale dei partiti di sinistra alle politiche del successivo aprile. La stessa Urss progettava una graduale sovietizzazione d’Europa nell’arco di un paio di generazioni, grazie anche alla prevista crisi del capitalismo.

Elena Aga Rossi con i suoi studi ha contribuito a smontare, sulla base di documenti d’archivio, alcuni miti della storia italiana. La svolta di Salerno di Togliatti, ovvero l’improvvisa apertura di credito del Pci al governo Badoglio, che spiazzò gli altri partiti di sinistra, sarebbe stata un’indicazione di Stalin e non una decisione autonoma del segretario comunista. La presunta autonomia del Pci (e anche del Psi di Pietro Nenni) rispetto all’Urss e la ricerca di una via nazionale sarebbe stata solo di facciata ma non di sostanza, come testimoniano la piena adesione dei comunisti italiani al Cominform e la vicenda di Trieste, sulla quale Togliatti si appiattì sulla linea di Stalin e di Tito. L’apertura degli archivi sovietici, avvenuta solo negli anni Novanta, ha consentito di documentare questi rapporti e di vedere per la prima volta «l’altra faccia della luna».

La longa manus dell’Urss si sarebbe manifestata anche con un condizionamento della politica editoriale di quegli anni in Italia, suggerendo alle principali casi editrici, compreso l’Einaudi e Laterza, la pubblicazione di saggi di chiara impronta filocomunista e antiamericana e di contro ostacolando la diffusione di libri di denuncia dell’oppressione sovietica come «Arcipelago Gulag» di Aleksandr Solzenicyn e «Vita e destino» di Vassilij Grossman.

La stessa decisione di De Gasperi di rompere la coalizione con socialisti e comunisti e di varare un governo moderato, non sarebbe il frutto «avvelenato» del suo viaggio in Usa del gennaio 1947 ma una scelta dello statista democristiano dovuta a fattori interni, quali la sconfitta della Dc ai turni elettorali delle amministrative a Roma e altre città e delle regionali in Sicilia e la scarsa affidabilità dei partiti di sinistra, più di lotta che di governo. Una svolta politica sofferta (sul punto la Dc era divisa) e che è stata vista a lungo come la fine delle speranze di cambiamento generate dalla Resistenza e solo di recente è stata inquadrata come determinante per la ricostruzione del Paese in senso democratico.

Non c’è dubbio, rileva Elena Aga Rossi, che gli Usa (peraltro più teneri e accomodanti verso gli italiani rispetto agli inglesi) esercitarono una pesante influenza, politica ed economica, sull’Italia del dopoguerra, prima con la Commissione alleata di controllo e poi attraverso il Piano Marshall. Ma il nostro Paese era allo stremo delle forze e aveva poche alternative, poiché senza gli aiuti americani non si sarebbe potuta concretizzare la ricostruzione e ogni tentativo di ottenere aiuti da parte dell’Urss non ebbe alcun seguito, anzi i sovietici furono in prima fila nel richiedere all’Italia le riparazioni di guerra. E d’altronde quel piano fu alla base del boom degli anni successivi e consentì all’Italia di entrare nel club delle grandi potenze.

 

(Blog di Mario Avagliano, 2019)

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Filippo Palieri, il commissario nell’inferno di Wietzendorf

di Mario Avagliano

 

Siamo abituati a pensare al campo di Wietzendorf come un Offizierslager per ufficiali. Vero. Vi passarono lunghi mesi di prigionia internati militari graduati del calibro di Giovannino Guareschi, Alessandro Natta e Gianrico Tedeschi, solo per fare qualche nome. Ma in realtà nell’Oflag 83 non vi furono soltanto militari. Vi venne deportato anche il commissario di pubblica sicurezza Filippo Palieri, medaglia d’oro al merito civile nel 2004.

La storia di Palieri è singolare. Pugliese, nato a Cerignola il 22 maggio del 1911, giovane dal bel portamento, un po’ stempiato, occhiali rotondi, fronte alta, di profonda fede religiosa, era alla Questura di Rieti dal 1935. Sposato con Giuliana Annesi, poetessa e letterata, discendente di un’antica famiglia aristocratica, aveva tre figli: Rodolfo, Antonello e Alba Maria. Nominato capo di gabinetto, dopo l’8 settembre 1943 – complice l’assenza per malattia del Questore Solimando – si era trovato di fatto a reggere la Questura e a dover far fronte alle richieste pressanti dei tedeschi, che volevano eseguire rastrellamenti di lavoratori specializzati per inviarli in Germania e chiedevano notizie dei giovani renitenti alla leva.

Filippo, come racconta il libro Oltre il Lager. Filippo Palieri un eroe cristiano nell’inferno di Wietzendorf, pubblicato nel 2005, non collabora con i nazisti, anzi fin dall’inizio dell’occupazione, assieme al capo del servizio politico Salvatore Poti, tenta di sabotare i disegni dei tedeschi, nascondendo gli elenchi di circa 300 artigiani, tecnici, autisti e operai specializzati di Rieti destinati ad essere inviati al lavoro obbligatorio nel Reich al servizio della Wehrmacht e avvertendo i concittadini del pericolo che corrono. Ma il suo doppio gioco viene scoperto e così la mattina del 4 ottobre del 1943, nonostante sia a casa a letto con la febbre, su ordine del comandante delle truppe germaniche, il Feldmaresciallo Mayer, viene arrestato per «mancata collaborazione» insieme a Poti e a sei ufficiali reatini.

Da questo momento in poi Filippo Palieri, nonostante sia un civile e non un ufficiale, non viene destinato a un lager per deportati politici ma segue la stessa sorte degli internati militari, i cosiddetti Imi. La prima tappa è il campo polacco di Luckenwalden, cui seguono Benjaminow, Bremenworde-Sandbostel e infine Wietzendorf. Tappe di un Calvario, come recita il titolo del libro di memorie di don Luigi Pasa, che fu suo compagno di prigionia. Dai lager Filippo scrive varie lettere alle famiglie sui moduli prestampati dei prigionieri, al pari degli internati bluffando sulle sue reali condizioni di salute, sull’alimentazione e sulla temperatura dei luoghi, per non far preoccupare i familiari, tanto che la moglie Giuliana, che qualcosa sospetta, in una delle risposte gli dice: «Filippo, amore mio, se sapessi come apprezzo la generosità che hai dimostrato nel non lagnarti di nulla!».

Anche a lui, benché sia un civile, vengono fatte richieste di adesione. Ma non cede mai, neppure quando la moglie, nella prospettiva di un rimpatrio anticipato, gli scrive: «non si può far niente senza la tua adesione». Lui replica fermo: «il prezzo è troppo alto per me».

A Wietzendorf, Palieri il 3 aprile 1945 nel suo diario, che giungerà in Italia dopo la guerra, portato alla famiglia da un internato, scrive profeticamente: «Ho avuto il sogno più completo della mia prigionia. Mia madre di cui ho toccato la mano con tanta verosimiglianza che quando mi sono destato ho fatto fatica a comprendere che era un sogno. Mio padre, di cui nella camera accanto sentivo il solito canticchiare. Mia moglie. Speriamo che ciò sia presagio della fine imminente come i più recenti avvenimenti danno presumere».

Filippo però è allo stremo delle forze. Con la febbre alta, come lui stesso annota, è stato costretto fra il 31 gennaio e il 1° febbraio a percorrere a piedi dodici chilometri sul ghiaccio, ad una temperatura di diversi gradi sotto lo zero, da Sandbostel all’attuale campo, non ottenendo come richiesto il trasporto su carro. Successivamente, ricoverato in infermeria, è stato dimesso il 2 aprile ancora malato, costretto ai lunghi appelli al freddo e alle docce, con la solita sbobba senza sostanze come unica alimentazione.

E così il 13 aprile, verso le 11 di mattina, il commissario esala l’ultimo respiro, La fame, gli stenti, la crudeltà tedesca e la mancanza di cure lo hanno ucciso. Don Luigi Pasa nel suo libro racconta la scomparsa dell’amico avvenuta proprio alla vigilia della liberazione, ricordando che gli parlava sempre della moglie e dei tre figli, «concludendo invariabilmente: “Non vedrò più la mia famiglia!”».

Appena tre giorni dopo, il 16 aprile, il campo di Wietzendorf, dove sono stati concentrati la gran parte degli ufficiali, viene liberato. Il comandante italiano Pietro Testa alle 17.31 emana un ordine del giorno che molti annotano nei propri diari:

Ufficiali, sottufficiali, soldati del campo 83 di Wietzendorf: Siamo liberi! Le sofferenze di 19 mesi di un internamento peggiore di mille prigioni sono finite. Abbiamo resistito nel nome del Re e della Patria. Siamo degni di ricostruire. Ufficiali, Sottufficiali, soldati italiani! Ricordiamo i morti, morti di stenti ma fieri nelle facce sparute, sotto gli abiti a brandelli, con una fede inchiodata alta come una bandiera. Salutiamo la Patria che risorge, che noi dobbiamo far risorgere. Viva il Re W l’Italia W le Nazioni Alleate.

Purtroppo Filippo Palieri è morto, non può festeggiare assieme ai suoi compagni. Anzi, le fasi concitate della liberazione ritardano anche la sua sepoltura, in programma il 15 ma rimandata al tardo pomeriggio del 16, nel bosco all’interno del campo, proprio mentre arrivano gli inglesi, così che tra «baci, abbracci, strette di mani, sorrisi, auguri formulati con la gioia sulle labbra», come annota quel giorno Giuseppe Lidio Lalli, in «un tripudio generale che è divenuto emozionante al momento dell’alza-bandiera, accompagnato dal Coro del Nabucco: “Oh mia Patria sì bella e perduta”», «nessuno – scrive don Pasa – pensò più al funerale di quel povero Palieri». La funzione religiosa viene celebrata la mattina dopo, alle 9.30, presenti tutti gli ufficiali e soldati del campo oltre a una rappresentanza francese e inglese. Dopo la preghiera e il ricordo di don Pasa, interviene il comandante del campo, il colonnello Pietro Testa, che – ricorda sempre il cappellano - «disse, deponendo la bandiera sulla cassa: “I tedeschi ci avevano negata la bandiera, la nostra bandiera: tu sei il primo che viene avvolto liberamente nel tricolore!»

Solo nel 1970 la famiglia otterrà il trasferimento del feretro al cimitero di Allumiere, in provincia di Roma, dove oggi sorge un monumento funerario alle memoria del coraggioso commissario, deportato per essersi opposto alla barbarie nazifascista e capace di dire «no» fino alla fine, a costo della sua vita.

("Rassegna", ANRP, n. 1-2, gennaio-febbraio 2020)

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L'Italia senza camicia nera. Aldo Cazzullo: la prima ricostruzione completa del dissenso al regime

di Aldo Cazzullo

«Mussolini visita un manicomio. I ricoverati messi in fila applaudono freneticamente. Uno solo non batte le mani. Un uomo della scoria lo interroga: e voi non applaudite? Non sono mica matto, io sono un infermiere». E' una delle tante barzellette che vengono raccontate sotto la dittatura di Benito Mussolini. Un'ironia sotterranea e amara, che circola segretamente tra gli italiani nei primi anni Trenta. Il regime fascista, del resto, dopo aver neutralizzato ogni forma d'opposizione, ha fatto scendere la sua cappa oppressiva sul Paese. La macchina della repressione, con l'occhio vigile della polizia e delle spie, e quella del consenso, con la propaganda, le organizzazioni paramilitari e le adunate oceaniche, funzionano a pieni giri. Non essere allineati è un rischio troppo alto da correre e non sono solo gli oppositori veri e propri a rischiare, ma anche i semplici mormoratori, cioè chi si lascia sfuggire mere imprecazioni o battute di spirito contro Mussolini e il fascismo o sulla situazione in generale.

E' quanto racconta il nuovo libro di Mario Avagliano e Marco Palmieri, intitolato II dissenso al fascismo. Gli italiani che si ribellarono a Mussolini 1925-1943 (il Mulino). Da anni Avagliano e Palmieri portano avanti una loro peculiare ricerca storica, basata su un enorme lavoro sulla corrispondenza e sulle carte private e familiari degli italiani. Questa è la prima ricostruzione completa del dissenso al regime. A conferma del fatto che non tutti gli italiani sono stati fascisti.

Le spedizioni punitive, le ritorsioni, le condanne del Tribunale speciale al carcere e al confino e la vigilanza onnipresente e asfissiante della polizia politica, la famigerata Ovra, riducono al silenzio, all'inattività o alla fuga all'estero buona parte degli oppositori e anche chi semplicemente si lamenta o ironizza sul Duce e l'operato del regime. Le uniche opinioni consentite sono quelle autorizzate, cioè allineate. Ogni ambito della vita pubblica e privata è presidiato. «L'Italia — spiegherà nel 1944 l'antifascista di Albano Umberto Di Fazio — era divenuta per gli italiani un terreno così infido che bisognava bene esaminare davanti a sé prima di avventurarsi a muovere un piede. Si giunse all'assurdo che qualche volta persino tra le pareti domestiche si dubitava». E il periodico satirico «Il becco giallo» da Parigi, nel 1931, in un articolo intitolato Il mito dell'Ovra osserva che «c'è chi vede il fantasma dell'Ovra in ogni ombra; chi abbrividisce ad ogni palpito di tenda; chi suda freddo per lo scricchiolio di un mobile o per il gemito di una porta».

Eppure negli anni della dittatura il dissenso non viene soffocato del tutto. Una minoranza di italiani ha il coraggio di continuare a esprimerlo, pagando un prezzo altissimo in termini di emarginazione e isolamento sociale, controllo poliziesco, violenze e condanne severe. Accanto a figure note come Gramsci, Gobetti, Matteotti, don Minzoni e ai tanti esuli costretti alla fuga all'estero fin dai primi anni del regime, il libro prende in esame anche l'opposizione spontanea, popolare, spesso politicamente inconsapevole e finora poco indagata, che forma un terreno fertile su cui poi attecchirà la partecipazione di molti italiani alla guerra di Liberazione.

Il dissenso trova varie forme, pubbliche e private, eclatanti o sotterranee, esplicite o camuffate, organizzate o spontanee, per continuare ad essere manifestato. Si tratta di spazi residuali e limitati, pericolosissimi da occupare, che però persistono durante tutta la dittatura in modo non omogeneo nel tempo e nelle diverse zone del Paese. Con varie forme di espressione che spaziano dalla semplice indifferenza, alla non adesione intima e privata, fino all'antifascismo militante, con espressioni che vanno dai comportamenti privati alle iniziative individuali, fino all'impegno più organizzato. È il caso del giovane «di 25 anni, scarno, di statura media, colorito roseo, capelli castani con maglietta da ciclista color bigio» che, come riferisce una relazione della polizia, in un mattino della fine del 1927 scende da Albano lungo l'Appia a tutta velocità con la sua bicicletta lanciando manifestini che invitano a lottare contro il fascismo. O quello del fornaio Giuseppe Sciuto, di Catania, non iscritto a nessun partito ma che tra il 1939 e il 1941 scrive ben 118 lettere anonime in stampatello a personalità italiane, gerarchi fascisti e giornalisti italiani e stranieri con frasi come: «Il fascismo tiene gli operai schiavi e sacrificati; il fascismo, banditismo nero, assassino, micidiale e nemico dell'umanità». Decine di agenti vengono impiegati nella caccia all'uomo, anche prendendo il posto dei postini di Catania e sorvegliando le buche delle poste, ma ci vogliono due anni per stanare Sciuto, arrestato il 5 maggio 1941 mentre sta per imbustare altre missive alla cassetta postale.

Spesso si tratta di un «antifascismo da osteria», in quanto i presunti dissidenti pronunciano le loro invettive sotto i fumi dell'alcol, nel corso di litigi o per eccessi di rabbia dovuti alla disperazione e alla miseria, incappando nelle denunce di delatori di passaggio, colleghi, conoscenti o perfino parenti, talora ritrattandole per evitare la condanna o alleviare le pene. Non mancano però filoni di dissenso sociale più profondi e meno estemporanei, che arrivano anche a proteste popolari come cortei davanti alle sedi istituzionali e tumulti e scioperi nelle fabbriche e nelle campagne, soprattutto nei momenti più gravi della crisi economico-sociale, che vedono protagoniste anche tantissime donne: dopo la rivalutazione della lira del 1926-27, nei primi anni Trenta con l'arrivo in Italia degli effetti della Grande Depressione e durante la guerra, specie tra il 1942 e i primi mesi del 1943. 

Esercitare il dissenso sotto il fascismo ha un costo. Tra il 1926 e il 1943 ogni settimana, come ha calcolato Altiero Spinelli, il regime infligge l'ammonizione o la vigilanza speciale a 181 cittadini, ne invia 11 al confino, ne denuncia 24 al Tribunale speciale e ne condanna 6 al carcere con pene fino a trent'anni. La maggior parte degli antifascisti trascorre buona parte della giovinezza tra il carcere e il confino. «Cara Fiorella — osserva sempre Spinelli in una lettera de11942 — ecco oggi, tre giugno, son quindici anni che son prigioniero, il 43% della mia vita totale, o, se si conta la vita effettiva dai 15 anni in su, il 75%. Con un certo senso di orrore sto scrivendo queste cifre. Non credo che ci sia molta gente al mondo che abbia battuto questi record».

E' un dissenso che ha tanti volti e tante forme. Lo esprimono uomini e donne legati ad antiche fedeltà ideali e politiche maturate prima dell'avvento del regime, in famiglia o nelle comunità cittadine o di quartiere. Ci sono anche antifascisti «dormienti», che sono rimasti in Italia e hanno abbandonato l'attività politica attiva, ma di cui è nota la contrarietà al Duce. Così come sono i più vari i luoghi del dissenso: per strada, nelle trattorie, nei bar, sui tram, nei posti di lavoro, nel privato delle proprie case. E lo stesso vale per le sue forme, tra cui quelle cosiddette «povere»: barzellette, filastrocche, caricature, parodie di canzoni o di poesie, insulti e imprecazioni contro Mussolini e i gerarchi, statue parlanti (come nel caso di Roma), scritte murali che spesso compaiono in occasione di date simbolo come il primo maggio, ritocchi sarcastici di cartoline propagandistiche, volantini artigianali, intonazione di canti politici, culto e ricordo degli oppositori morti per mano fascista e funerali sovversivi.

(Corriere della Sera, 9 ottobre 2022)

Quando era il Sud a protestare contro Roma

La caduta del fascismo a fine luglio del 1943 porta anche alla rinascita del pluralismo sindacale, soffocato durante il Ventennio fascista. E infatti il nuovo ministro delle corporazioni Leopoldo Piccardi, in accordo con il capo del governo Badoglio, decide di «commissariare» le organizzazioni sindacali costituite nel passato regime, affidandone la guida ad alcuni esponenti del sindacalismo prefascista, rappresentanti delle maggiori correnti politiche. Il socialista Bruno Buozzi viene nominato a capo dell’organizzazione dei lavoratori dell’industria, il cattolico Achille Grandi a quella dell’agricoltura e il comunista Giuseppe Di Vittorio a quella dei braccianti. All’organizzazione degli industriali viene invece preposto Giovanni Mazzini, che aveva già guidato l’associazione prima dell’avvento della dittatura. Mazzini e Buozzi il 2 settembre 1943 siglano un accordo con il quale vengono ufficialmente ricostituite le commissioni interne nei luoghi di lavoro soppresse dal patto di Palazzo Vidoni del 2 ottobre 1925.

di Mario Avagliano e Marco Palmieri

L’armistizio dell’8 settembre 1943 e la divisione in due del Paese frenano però la costituzione di un nuovo sindacato democratico unitario. Tuttavia il governo Badoglio estende progressivamente a tutto il Meridione l’ordine di scioglimento dei sindacati fascisti e il diritto di costituire organizzazioni libere da ogni controllo governativo. Già a partire dall’ottobre del 1943 vengono costituite Camere del Lavoro in molte delle province liberate e a novembre al convegno di Napoli, al quale partecipano i rappresentanti dei lavoratori della provincia, viene creato il Segretariato Meridionale della Confederazione Generale del Lavoro (Cgl) e sono fissate le direttive fondamentali del nuovo sindacato. Nel comitato direttivo provvisorio entrano membri del Pci, del Psiup e del Pd’A e segretario generale viene nominato Enrico Russo, vecchio militante comunista, perseguitato dai fascisti, combattente nelle brigate internazionali in Spagna, già segretario della Camera del Lavoro di Napoli e segretario regionale del Pci sino al 1926, ma ora in odore di eresia per le sue posizioni eterodosse (nel partito c’è chi lo accusa di essere trotskista e a lui sono vicini i frazionisti di sinistra della federazione di piazza Montesanto). L’altro dirigente di spicco è Dino Gentili, che rappresenta la corrente azionista.

L’impronta classista del sindacato non è affatto gradita al Pci, che promuove l’indizione a Bari il 29 gennaio 1944, a margine del Congresso dei Comitati di Liberazione, di una riunione dei delegati sindacali del Mezzogiorno nella sede dei post-telegrafonici. Dall’assise emerge la volontà di costituire una nuova Cgl, in opposizione a quella napoletana, con l’aggiunta dell’aggettivo «Italiana» e che rappresenti tutte le forze antifasciste. Nel comitato provvisorio direttivo entrano anche il Pd’A e i liberali, anche se la direzione è costituita da membri di Pci, Psiup e Dc. La carica di segretario viene affidata al socialista Bruno Buozzi e la vice-segreteria al comunista Giovanni Roveda e al democristiano Achille Grandi. Ma nessuno di essi si trova nel territorio liberato ed è in grado, quindi, di assumere la carica, anche se è chiaro l’intento di dimostrare l’importanza e l’autorevolezza della Cgil barese rispetto alla Cgl di Napoli.

I desideri del Pci di formare un sindacato interpartitico vengono peraltro frenati dai rappresentanti di Psiup, Pd’A e Dc che il 5 febbraio 1944 diffondono un comunicato congiunto nel quale si dichiara di non riconoscere il deliberato del Congresso di Bari. La Cgil di Bari non viene sciolta, ma la componente che fa capo al Pci deve rallentare i tempi di formazione di un nuovo sindacato unitario.

Intanto la Cgl convoca a Salerno il suo primo congresso nazionale dal 18 al 20 febbraio 1944. All’assise partecipano trenta Camere del Lavoro, quattro sindacati campani, ventitré federazioni della terra e i delegati delle commissioni di fabbrica per i centri in cui le Camere del Lavoro non funzionano ancora, in rappresentanza di circa 150 mila iscritti. Una delegazione giunge dalla Puglia (Andria) e altri rappresentanti dall’Abruzzo e Molise.

Sono assenti i rappresentanti della Cgil di Bari, che peraltro fanno di tutto per cercare di impedire l’adesione delle altre province. Il Teatro Verdi, dove si tiene la manifestazione, è gremito: vi sono oltre duemila persone. La Cgl dà vita anche a un giornale, «Battaglie sindacali», con Enrico Russo direttore e Libero Villone redattore capo, il cui primo numero esce proprio il 20 febbraio.

Il congresso conferma come segretario nazionale Enrico Russo, il quale nella sua relazione chiarisce che «Non vi deve essere alcuna tregua sindacale», chiede di combattere il mercato nero, propone aumenti salariali per i lavoratori e l’eliminazione della disoccupazione mediante la consegna delle fabbriche alla gestione diretta operaia, e afferma l’esigenza di una decisa epurazione a ogni livello: «Il 25 luglio non è stato altro che il salvataggio della borghesia. Si è cambiata l’etichetta, ma il fascismo è rimasto, e il proletariato lo ha capito benissimo».

«Con il governo della borghesia – aggiunge Russo – non possiamo venire a nessun accordo […]. Le masse lavoratrici sono decisamente contro il governo Badoglio che, coprendo le responsabilità dei fascisti, rinnova e rafforza il fascismo».

Il congresso vota anche l’unificazione con la Cgil di Bari. Inutile si rivela il tentativo dei rappresentanti del Pci di scalzare dalla direzione Enrico Russo, come rileva l’Oss, ricostruendo in un documento del 27 aprile 1944 i retroscena del Congresso: «Tengono banco Gentili, il PD’A e i comunisti dissidenti di Russo. I socialisti e i comunisti di Napoli non riescono a sconfessare del tutto Salerno e lo definiscono regionale, cercando di dare peso all’altra CGL […] incaricano poi i socialisti presenti a Salerno di votare, nella votazione finale, contro Russo. Ma i socialisti di Salerno passarono l’informazione a Gentili e Russo si salva con 60 voti contro 26».

Nel frattempo anche i democristiani hanno creato una loro organizzazione sindacale; a Salerno, nei giorni 19 e 20 marzo, è nata la Confederazione Italiana del Lavoro (Cil), il cui congresso viene convocato con un manifesto che s’intitola Lavoratori di tutto il mondo; unitevi in Cristo. Viene nominato segretario generale Domenico Colasanto.

Togliatti, dopo il suo arrivo a Napoli, a inizio aprile incontra Russo e tenta un dialogo con la Cgl. Ma i motivi di contrasto prevalgono per la forte impronta classista della Cgl e perché essa avversa con asprezza la svolta di Salerno. Il 16 aprile del 1944, infatti, la Cgl emana un duro comunicato contro l’ipotesi di un nuovo gabinetto Badoglio con la partecipazione dei partiti del Cln in cui sostiene che «nessun governo di collaborazione con elementi responsabili del fascismo può risolvere i problemi della crisi politica ed economica, né soddisfare le aspirazioni delle masse» e «afferma che nessun governo potrà utilmente operare nell’interesse del Paese se non avrà l’appoggio delle masse lavoratrici».

A questo punto lo scontro con il Pci è frontale. Attraverso le colonne de «l’Unità» il partito critica duramente la Cgl, definita settaria e antidemocratica. Il 21 maggio «l’Unità» invita esplicitamente i dirigenti baresi a operare una scissione nel Consiglio Direttivo della Confederazione e afferma che i dirigenti eletti al congresso di Salerno non devono essere riconosciuti, ed è necessario che si tenga al più presto, «sulla base del tesseramento, la libera elezione degli organismi dirigenti» a tutti i livelli dell’organizzazione sindacale.

Alla fine di maggio viene convocato un nuovo congresso a Bari, al quale partecipano i rappresentanti della Cgil di Bari e della Cgl di Napoli, ma che ha carattere interlocutorio, sia per l’approssimarsi della liberazione di Roma sia perché, come spiegherà il socialista Oreste Lizzadri, «si preferì non pregiudicare con deliberazioni impegnative le trattative che, si sapeva, a Roma erano giunte a buon punto fra i partiti di massa».

Infatti a Roma in clandestinità Buozzi, Grandi e Di Vittorio hanno continuato a tessere la tela per la costituzione di un’organizzazione unitaria, in cui siano rappresentati i tre partiti di massa. Il loro impegno sfocia in uno storico accordo, il Patto di Roma, che viene siglato all’indomani della liberazione della capitale, il 9 giugno del 1944, e che sancisce la nascita della Confederazione generale italiana del lavoro unitaria (Cgil), stabilendo tra l’altro il «rispetto reciproco di ogni opinione politica e fede religiosa», la democrazia interna con elezione dal basso delle cariche, l’indipendenza dai partiti e la partecipazione in forma paritetica delle correnti sindacali.

Il Patto viene sottoscritto, oltre che da Di Vittorio e da Grandi, da Emilio Canevari che ha assunto la guida della corrente socialista dopo l’arresto di Buozzi da parte dei tedeschi il 13 aprile 1944 e la sua uccisione il 4 giugno nell’eccidio in località La Storta. La nascita del nuovo sindacato unitario precede lo scioglimento delle vecchie organizzazioni sopravvissute alla caduta del fascismo, che avviene qualche mese dopo, con il decreto legislativo n. 369 del 23 novembre 1944.

La risposta della Cgl di Russo è al fulmicotone, con un ordine del giorno in cui si afferma che «di fronte all’informazione che a Roma si è nominato un organo centrale di una Confederazione Generale Italiana del Lavoro, con tre dirigenti designati da partiti politici, nel riaffermare la necessità che il movimento sindacale rimanga indipendente dai partiti politici e non divenga strumento degli stessi, ma rimanga mezzo attraverso il quale le masse lavoratrici realizzano la difesa dei loro interessi; dichiara di non poter riconoscere alcuna nomina che non sia fatta per espressa volontà delle masse lavoratrici». La Cgl si ripropone di rappresentare essa i lavoratori, anche a Roma e nel resto d’Italia. Per contrastare l’ormai invadente sindacato romano, a giugno la Cgl stipula con la cattolica Cil un’intesa riguardante l’attività sindacale di base e i contratti collettivi.

Ma il piano di Russo & Co. si rivela velleitario. E infatti, mentre Di Vittorio tiene decine di comizi per diffondere l’idea del sindacato unitario, nelle settimane successive la Cgl perde pezzi, con la presa di distanza dei delegati di Bari e la fuoriuscita di vari segretari di Camere del Lavoro. Non resta altra strada che lo scioglimento e la confluenza nella Cgil romana. Con questo obiettivo viene convocato il 27 agosto a Napoli un nuovo congresso, al quale partecipano oltre cento delegati provenienti da tutto il Sud e anche da Roma, dove la Cgl è appoggiata dal Movimento Comunista d’Italia («Bandiera Rossa»). Il congresso approva l’adesione alla Cgil. Russo, dimettendosi da ogni carica, nel discorso di chiusura dichiara: «Per la prima volta nella storia del Movimento Sindacale un organo direttivo è costretto a dissolversi per il prepotere di forze estranee soverchianti […]. Dalla liberazione di Roma ci attendevamo un più vasto respiro di libertà. Ma questo respiro è stato soffocato».

Nel frattempo anche la Cil si è sciolta, superando le resistenze interne che hanno reso necessario un viaggio a Napoli di Achille Grandi. Ma in ambito cattolico resta l’esigenza di avere un luogo autonomo di discussione dei problemi del lavoro, tanto è vero che in un convegno tenuto tra il 26 e il 28 agosto del 1944 nel convento di Santa Maria sopra Minerva i dirigenti dell’Azione Cattolica e i sindacalisti della Dc firmatari del Patto di Roma decidono di dar vita alle Associazioni Cristiane Lavoratori Italiani (Acli) «per integrare e affiancare l’opera dei sindacati unitari di categoria». A testimonianza del preciso legame tra la nuova organizzazione e la corrente cattolica presente nella Cgil, Grandi ne viene nominato presidente e Giulio Pastore segretario.

Il 15 settembre del 1944 a Roma si svolge il Convegno delle organizzazioni sindacali dell’Italia liberata, alla presenza della delegazione sindacale anglo-americana e del segretario della Federazione Sindacale Mondiale, Walter Schevenels, che danno l’imprimatur al nuovo sindacato.

Il primo Congresso della Cgil unitaria si tiene invece a Napoli dal 28 gennaio al 1° febbraio 1945, con la partecipazione dei delegati delle dodici regioni fino ad allora liberate (Sicilia, Calabria, Basilicata, Campania, Puglia, Abruzzo, Sardegna, Lazio, Umbria, Marche, Toscana, Romagna).

È l’occasione per ratificare il Patto di Roma e per confermare la segreteria generale, composta da Di Vittorio, Grandi e Oreste Lizzadri (che ha preso il posto di Canevari). Recita la risoluzione finale: «Il Congresso dichiara che l’unità sindacale, superate trionfalmente le prime prove, è considerata da tutti i lavoratori italiani come la più importante conquista da essi realizzata. Il proletariato italiano difenderà col più grande vigore questa sua conquista contro tutti coloro che tentassero, con arti subdole e con attacchi diretti, di infrangerla o d’incrinarla».

I carabinieri in un rapporto del 6 febbraio informano che «i congressisti hanno votato un ordine del giorno nel quale, tra l’altro, si afferma la necessità 1) dell’unità sindacale, 2) di immediati provvedimenti a favore dei lavoratori, 3) della soppressione dei contratti fascisti, 4) della partecipazione dei lavoratori alla gestione delle aziende, 5) della parità di trattamento degli operai in tutta Italia, 6) della nazionalizzazione dei monopoli economici», osservando che «Con le decisioni prese la Cgil mirerebbe al potenziamento delle masse per poter influire sulla direttive politiche del governo, tanto più che gli iscritti […] dei partiti estremisti sono in maggioranza».

Nel rapporto successivo del 9 marzo aggiungono: «Il partito comunista cerca di ingrossare le sue file prevalentemente attraverso l’appoggio della Confederazione generale del Lavoro e l’inquadramento delle organizzazioni sindacali sotto l’egida del partito».

Intanto anche il mondo imprenditoriale si organizza con la nascita il 18 gennaio 1945 dell’Unione degli Industriali della provincia di Napoli e della Camera di Commercio, che riprende la sua denominazione originaria dopo essere stata trasformata in epoca fascista in Consiglio provinciale delle Corporazioni e viene guidata prima da un commissario e poi da Epimenio Corbino. Riprende così la dialettica tra rappresentanti delle imprese e dei lavoratori, ancora prima della liberazione del Nord dell’Italia.

("Patria Indipendente", n. 103, marzo 2021)

 

Fonti bibliografiche e archivistiche

Alosco, Alle radici del sindacalismo. La ricostruzione della CGL nell’Italia liberata. 1943-1944, Milano, SugarCo, 1979

Archivio centrale dello Stato, Governo del Sud, Arma Carabinieri Reali dell’Italia liberata, fasc. 3/16.

Bianconi, 1943: la CGL sconosciuta. La lotta degli esponenti politici per la gestione dei sindacati operai 1943-1946, Centro Studi Libertari Di Sciullo, Chieti, 2013

Romeo, 28 gennaio-1° febbraio 1945, nell’Italia divisa in due il Congresso della Cgil delle zone liberate, in LaCgilnelNovecento.blogspot.com, 2 febbraio 2017

 

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Il 7 dicembre presentazione a Roma di "Paisà, sciuscià e segnorine"

Martedì 7 dicembre, alle ore 17.00, presso la sede e sul canale Facebook della Biblioteca di storia moderna e contemporanea, in collaborazione con ANPI, INSMLI e IRSIFAR, sarà presentato il volume Paisà, sciuscià e segnorine. Il Sud e Roma dallo sbarco in Sicilia al 25 aprile di Mario Avagliano e Marco Palmieri. (Il Mulino, 2021). Intervengono: Anna Balzarro, Isabella Insolvibile, Giancarlo Governi,  Gianfranco Pagliarulo. Coordina: Maria Corbi. Saranno presenti gli autori.

È stato chiamato «l'altro dopoguerra» il periodo vissuto dall'Italia meridionale e Roma tra il luglio del 1943, quando gli alleati sbarcano in Sicilia, e il maggio del 1945, quando la guerra finisce. Un lungo periodo, segnato dal procedere lento della linea del fronte verso nord, con combattimenti accaniti, violenze, stragi tedesche e alleate e atti di resistenza, spesso misconosciuti (non solo la battaglia per la difesa di Roma e le Quattro giornate di Napoli). Ma anche un vitale, caotico, difficile ritorno alla pace e alla libertà, con il primo confronto con la democrazia dopo il ventennio fascista. I problemi economici e sociali sono aggravati dall’atteggiamento dei militari alleati, intorno ai quali, come avviene ad esempio a Napoli e a Roma, proliferano fenomeni come segnorine, sciuscià e traffici del mercato nero che portano a un certo decadimento dei costumi morali. Esaurita l’euforia della libertà riconquistata ed emersa la consapevolezza del carattere illusorio dell’aspettativa che l’arrivo degli anglo-americani, simbolizzato dal pane bianco, dalle caramelle e dalle chewing-gum, porti miracolosamente alla fine della miseria, le truppe “salvatrici” nella penisola diventano sempre meno gradite. La presenza degli alleati, il ritorno dei partiti, delle radio, della stampa libera, la voglia di normalità e di divertimento, la rinascita del cinema e del teatro, con Anna Magnani, Totò, i fratelli de Filippo, De Sica e Rossellini, e poi la fame, il banditismo, le marocchinate, la criminalità. Attingendo a lettere, diari, corrispondenza censurata, relazioni delle autorità italiane e alleate, giornali, canzoni, film, il libro compone un racconto corale, curioso e inedito di quell'Italia del dopoguerra.


Mario Avagliano
è un giornalista e storico, collabora alle pagine culturali de “Il Messaggero” e de “Il Mattino”. E’ autore di numerosi saggi su fascismo, seconda guerra mondiale, deportazioni e dopoguerra.

Marco Palmieri è giornalista e storico, ha lavorato per diverse testate e ha pubblicato numerosi saggi sulla deportazione, la resistenza e il dopoguerra.

 

Anna Balzarro è direttrice dell’Istituto romano per la storia d’Italia dal fascismo alla Resistenza (IRSIFAR) 

Maria Corbi è una giornalista, inviata de La Stampa.

Giancarlo Governi è un autore televisivo, sceneggiatore e scrittore.

Isabella Insolvibile è una storica specializzata nella Resistenza italiana.

Gianfranco Pagliarulo è presidente nazionale dell’Associazione Nazionale Partigiani d’Italia (ANPI)                                                            

Patrizia Rusciani è direttrice Biblioteca di Storia Moderna e Contemporanea.



Diretta sul canale FB della Biblioteca
https://www.facebook.com/BSMCstoriamoderna

E nei giorni successivi sul canale youtube della Biblioteca

www.youtube.com/channel/UCfXpacBHyoMTCWStx0Mj3yQ

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Libri, Avagliano “Raccontiamo altro dopoguerra, pesò su formazione Sud”

ROMA (ITALPRESS) – “Il cosiddetto ‘altro dopoguerrà, il periodo vissuto dal Sud e Roma tra il luglio del 1943, quando gli alleati sbarcano in Sicilia, e il maggio del 1945 ha inciso tantissimo nella formazione del meridione perchè ci furono i primi episodi di resistenza”. Lo dice, in un’intervista all’Italpress,
Mario Avagliano, giornalista e storico, coautore, insieme a Marco Palmieri, di “Paisà, sciuscià e segnorine – Il Sud e Roma dallo sbarco degli alleati al 25 aprile”, edizioni “Il Mulino”.
“Vittorio Foa – aggiunge – raccontò che gli stessi settentrionali considerarono con superficialità quel momento e se ne pentì perchè al contrario andava valorizzato. Il Mezzogiorno è stato protagonista di tanti episodi che non sono solo le 4 Giornate di Napoli”. Attraverso diari, lettere, appunti, Avagliano fa un racconto di questi eventi basandosi direttamente sulle testimonianze dei diretti interessati: “Ci sono episodi che riguardano la Puglia, la Campania, gli Abruzzi dove si formarono anche bande partigiane. Una ricostruzione fatta attraverso le parole dei protagonisti”.
“Accanto alle violenze dei tedeschi, ci furono anche le stragi commesse degli alleati soprattutto dopo i primi giorni dello sbarco in Sicilia” ha spiegato lo scrittore aggiungendo: “Si parla anche del rapporto difficile, a tratti negativo, con gli stessi alleati che sono sì portatori di libertà e nuovi costumi ma anche di degrado morale e sociale. Quindi il fenomeno degli sciuscià, delle signorine, cioè le prostitute, insieme a quello dell’avanzata sociale e del progresso della democrazia”. Una lettura non edulcorata, indulgente o macchiettistica, ma cruda della realtà. Avagliano, infatti, sottolinea: “Un volto a due facce dove c’è un’Italia che rinasce”. Senza dimenticare il rinnovato spirito artistico, il fermento grazie agli spettacoli teatrali di Totò e Anna Magnani come ha ricordato l’autore del libro: “Totò e Magnani hanno il coraggio di fare battute e allusioni durante l’occupazione tedesca a Roma. Per questo Totò viene messo all’indice dai tedeschi che vogliono catturarlo insieme a Edoardo e Peppino De Filippo. Vengono avvisati, riescono a fuggire e quando tornano a Roma organizzano un grande spettacolo dove mettono alla berlina Mussolini e Hitler”.
Per Avagliano, gli anni successivi al secondo conflitto mondiale sono fondamentali: “Con il ritorno della democrazia e della libertà in Europa abbiamo avuto un lungo periodo di pace che perdura ancora. E’ il frutto del coraggio, della lotta e del sacrificio di tanti italiani che, o come partigiani o come deportati, riuscirono a costruire mattone dopo mattone la nostra Repubblica”.


(ITALPRESS, 8 novembre 2021).

 

Link al video dell'intervista: https://www.italpress.com/libri-avagliano-raccontiamo-laltro-dopoguerra-a-roma-e-al-sud/

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In libreria "Paisà, sciuscià e segnorine"

È stato chiamato «l’altro dopoguerra» il periodo vissuto dall’Italia meridionale e Roma tra il luglio del 1943, quando gli alleati sbarcano in Sicilia, e il maggio del 1945, quando la guerra finisce. Un lungo periodo, segnato dal procedere lento della linea del fronte verso nord, con combattimenti accaniti, violenze, atti di resistenza. Ma anche un vitale, caotico, difficile ritorno alla pace e alla libertà. La presenza ingombrante degli alleati, il ritorno dei partiti, delle radio, della stampa libera, la voglia di normalità e di divertimento, e poi la fame, la prostituzione, il banditismo, le marocchinate, la criminalità. Attingendo a lettere, diari, corrispondenza censurata, relazioni delle autorità italiane e alleate, giornali, canzoni, film, il nuovo lavoro di Mario Avagliano e Marco Palmieri, "Paisà, sciuscià e segnorine. Il sud e Roma dallo sbarco in Sicilia al 25 aprile", appena uscito in tutte le librerie per i tipi del Mulino, compone un racconto corale, colorato, curioso e in tanti dettagli inedito di quell’Italia che per prima si affacciava al dopoguerra.

"La forza di questo libro è la ricchezza di frammenti di storie individuali che catturano e avvincono, ricostruendo in presa diretta la vita del Mezzogiorno e del Centro Italia dopo la liberazione” (Aldo Cazzullo, Corriere della Sera, 22 ottobre 2021).

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