Storie – Canessa, il poliziotto giusto

di Mario Avagliano

Nell’Italia occupata del 1943-1945 era possibile anche un’altra scelta, oltre a quella del collaborazionismo di Salò con i tedeschi o dell’indifferenza. A testimoniarlo, a rischio della propria vita, ci furono uomini come Mario Canessa, scomparso – come ha scritto L’Unione Informa qualche giorno fa – lo scorso 7 luglio a Livorno, all’età di 97 anni.
La sua storia merita di essere ricordata.
Canessa, nato a Volterra (Pisa) il 20 novembre 1917, fece carriera nella polizia, iniziando come semplice agente e raggiungendo, dopo la guerra e la laurea in giurisprudenza all’Università Cattolica di Milano, l’incarico di dirigente generale al Ministero degli Interni.
Durante il periodo della Repubblica Sociale Italiana e dell’occupazione tedesca, Canessa si diede da fare per prestare aiuto a diversi ebrei perseguitati, sia nella sua città natale, a Volterra, dove con l’aiuto della sorella Oretta indirizzò il dottor Emerico Lukcas, medico dentista, presso la casa di una famiglia amica, sia a Tirano, in Valtellina, dove all’epoca abitava e dove nel settembre e ottobre del 1943 ospitò due ebree ungheresi, Flora Lusz e la figlia Noemi Gallia, aiutandole poi a fuggire in Svizzera.
Canessa si arruolò subito dopo l’armistizio nella prima banda partigiana della Valtellina e si adoperò in favore degli ebrei anche quale agente della polizia di frontiera al confine italo-svizzero, in contatto il Cln di Tirano, in particolare con l’avvocato Tommaso Solci. Infatti, la notte del 10-11 dicembre 1943, assieme al brigadiere Giovanni Marrani, condusse verso la salvezza, al di sopra del valico di Sasso del Gallo, il giovanissimo Ciro De Benedetti, milanese di 8 anni, tuttora vivente, affidando la nonna di questi, Corinna Siszi, ottuagenaria e claudicante, al compagno Pietro Vettrici, che la trasportò a spalle fino a Campocologno e la consegnò all’ufficio rifugiati.
Analoghe missioni Canessa svolse per portare al sicuro in Svizzera numerosi ex prigionieri di guerra.
Canessa è stato dichiarato “Giusto fra le Nazioni” il 24 gennaio 2008. La sua vicenda è stata ricostruita da Mario Zucchelli, giornalista del Tirreno, nel libro “Questo strano coraggio”,pubblicato dal Comune di Livorno nel 2010.
Fino ad allora Canessa aveva mantenuto il riserbo sulla sua attività di quegli anni. Una modestia esemplare, come dimostra la sua testimonianza sul salvataggio del bambino: «Mi dissero solo: devi portarlo di là. Macché eroe, tutti quanti lo facevamo o l’avremmo fatto. Per capirsi: neanch’io credevo di combinare chissacché. Ma la cosa giusta sì: portarlo di là». Già, la cosa giusta. Ma in quanti la fecero?

(L'Unione Informa e Moked.it del 15 luglio 2014)

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Storie - "La guerra che non ho combattuto"

di Mario Avagliano

Come si stava dalla parte di chi è perseguitato durante una guerra violenta come quella del 1939-1945? Ce lo racconta il diario di Giulio Supino, “Diario della guerra che non ho combattuto. Un italiano ebreo tra persecuzione e Resistenza”, appena uscito per i tipi di Aska Edizioni, a cura di Michele Sarfatti, che firma anche la prefazione.
Supino, professore di Idraulica espulso dall’Università nel 1938 perché ebreo, appuntò su alcuni taccuini nel 1939-1940 e nel 1943-1945 (per il periodo intermedio sono conservati fogli sparsi) le sue impressioni sulla vita di quegli anni a Bologna, le vicende belliche, la persecuzione antiebraica, l'inizio del suo impegno antifascista, e poi la Resistenza nelle fila del Partito d'Azione, la partecipazione alla vita sociale, lo studio, la rete amicale, la vita clandestina con la famiglia a Firenze nel 1943-1944, e l'impegno nella ricostruzione, fino al rientro a Bologna appena liberata.
Annotazioni che riflettono lo stato d’animo di chi è perseguitato, come quando nell’agosto del 1939, ripensando alla campagna di stampa che parla di “ebrei guerrafondai”, Supino di fronte all’opportunità che la consorte Camilla torni da Londra in Italia, scrive: “io non mi sento di affidare moglie e figlia a questi f.(ascisti)”.

Dal diario emerge il comportamento indifferente e spesso complice di gran parte della popolazione italiana (con delle eccezioni, per fortuna) sia di fronte all’applicazione delle leggi razziste del ’38 e sia, a seguito dell’armistizio del settembre ‘43, di fronte alla persecuzione delle vite messa in atto dai tedeschi con l’aiuto dei fascisti di Salò. Quando si scatena la caccia agli ebrei, l’impiegato della questura Vincenzo Attanasio, col quale è in contatto per conto della Resistenza, gli confessa: “Non avete idea della cattiveria umana. Valanga di lettere anonime. Spie ebree”.

L'inusuale "non" contenuto nel titolo rimarca il suo non aver combattuto nell'esercito italiano, perché ebreo, e non aver partecipato militarmente alla Liberazione di Firenze, perché ferito. Ma come scrive Sarfatti nella prefazione, in realtà Supino, che era reduce della Grande Guerra, combatté “varie guerre: quella per difendere e conservare la dignità propria e dei famigliari calpestata dall’antisemitismo di Stato, nonché la sua specifica dignità di studioso preparato e appassionato; quella per riaffermare i valori della democrazia; quella per la giustizia e la libertà reclamate dal PdA; quella per salvare la vita del suo nucleo famigliare, dei parenti prossimi, di altri ebrei braccati”.
Cronache di guerra e di persecuzione. Rare e quindi preziose. Da leggere con attenzione, con un occhio al presente, alla nostra Europa dove purtroppo sembra soffiare di nuovo un vento antisemita.

(L'Unione Informa e Moked.it del 12 agosto 2014)

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Storie - Il censimento del 1938

di Mario Avagliano

Anche nel Novecento, in estate la burocrazia andava in vacanza. Ma in quell’agosto del 1938 il regime fascista di Benito Mussolini richiamò in servizio prefetti, uffici comunali, carabinieri, responsabili del partito e via dicendo, per affidare loro il delicato compito del censimento degli ebrei in Italia. L’operazione fu ordinata con priorità assoluta, con la richiesta ai funzionari di mantenere massima segretezza sulla procedura (nei telegrammi la parola ebreo era in cifra e corrispondeva a 24535).
«Avverto – scrisse prima di Ferragosto il Prefetto di Firenze al podestà, fotografando bene lo spirito dell’iniziativa – che il lavoro di rilevazione dovrà essere compiuto fascisticamente, con celerità ed assoluta precisione, sotto la Vostra personale direzione e responsabilità».
Il censimento doveva rispecchiare la situazione alla mezzanotte del 22 agosto. E così in quei giorni centinaia di incaricati comunali si presentarono in qualche decina di migliaia di abitazioni sparse nella penisola per consegnare il foglio di rilevazione, andando a scovare gli ebrei anche nelle case per la villeggiatura.
Un’attività che venne svolta con scrupolo. I funzionari si diedero un gran da fare per contribuire al censimento, spesso andando a controllare lo status razziale di cittadini ignari dai cognomi inusuali o esotici per indagare se per caso fossero ebrei. Né mancarono privati cittadini che collaborarono all’operazione con segnalazioni alle autorità competenti, quasi sempre anonime, come ho raccontato assieme a Marco Palmieri nel libro “Di pura razza italiana”.
Nonostante la complessità dell’operazione i dati vennero raccolti e consegnati entro i tempi previsti. Gli ebrei presenti in Italia risultarono 58.412 (aventi per lo meno un genitore ebreo o ex ebreo). Vennero classificati come «ebrei effettivi» 46.656, di cui 9.415 stranieri, pari all’1 per mille della popolazione complessiva.
Il censimento fu il primo test per misurare la tenuta della pubblica amministrazione e delle diramazioni locali del partito di fronte all’imminente persecuzione. Test fascisticamente superato. L’Italia era pronta alle leggi razziali. Anzi, razziste.

(L'Unione Informa e Moked.it del 26 agosto 2014)

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Eichmann era un cinico nazista, non 'la banalità del Male'

di Mario Avagliano

Adolf Eichmann, ovvero il Male non banale. A 51 anni dalla pubblicazione del libro di Hannah Arendt “Eichmann in Jerusalem”, proposto in Italia da Feltrinelli con il titolo “La banalità del male”, una nuova ricerca demolisce le tesi della studiosa tedesca naturalizzata americana, che nel 1961 seguì per la rivista New Yorker le 121 udienze del processo in Israele a uno dei principali responsabili della macchina della soluzione finale, condannato a morte e impiccato l’anno dopo. E capovolge la rappresentazione del criminale di guerra nazista fatta dalla Arendt come "un esangue burocrate” che si limitava ad eseguire gli ordini e ad obbedire alle leggi.
A firmare il saggio, uscito questa settimana negli Stati Uniti per i tipi di e già recensito con grande rilievo dal New York Times, è una filosofa tedesca che vive ad Amburgo, Bettina Stangneth, che ha lavorato attorno alla figura di Eichmann per oltre un decennio, scavando a fondo sulla sua storia. Ne è venuto fuori un libro provocatoriamente intitolato “Eichmann prima di Gerusalemme. La vita non verificata di un assassino di massa”, già pubblicato con scalpore in Germania.
Se ascoltando Eichmann a Gerusalemme, la Arendt rimase impressionata dalla sua "incapacità di pensare", invece analizzando l’Eichmann capo della sezione ebraica della Gestapo, e poi in clandestinità in Sudamerica, la Stangneth vede all’opera un abile manipolatore della verità, tutt’altro che un “funzionario d’ordine” o “un piccolo ingranaggio dell’enorme macchina di annientamento di Hitler”, come si autodefinì nel corso del suo processo. Adolf, insomma, non fu un signore qualunque chiamato dallo Stato tedesco a fare un lavoro sporco, ma fu invece un carrierista rampante e ambizioso e un nazista fanatico e cinico, che agì con incondizionato impegno per difendere la purezza del sangue tedesco dalla “contaminazione ebraica”.
In passato già vari ricercatori avevano seriamente messo in discussione le conclusioni della Arendt (che però, come ci ricorda un libro pubblicato di recente dalla Giuntina, “Eichmann o la banalità del male”, venne difesa da un grande storico del calibro di Joachim Fest). Ma con questo libro la Stangneth le "frantuma" definitivamente, come ha dichiarato Deborah E. Lipstadt, storica alla Emory University e autrice di un libro sul processo Eichmann.
La Stangneth sostiene che la Arendt, morta nel 1975, fu ingannata dalla performance quasi teatrale di Eichmann al processo. E aggiunge che forse "per capire uno come Eichmann, è necessario sedersi e pensare con lui. E questo è il lavoro di un filosofo". La filosofa tedesca ha però lavorato come uno storico, rovistando in ben 30 archivi internazionali e consultando migliaia di documenti, come le oltre 1.300 pagine di memorie manoscritte, note e trascrizioni di interviste segrete rilasciate da Eichmann nel 1957 a Willem Sassen, un giornalista olandese ex nazista residente a Buenos Aires.
Un libro che rivela tanti dettagli inediti, come la lettera aperta scritta nel 1956 da Eichmann al cancelliere tedesco occidentale, Konrad Adenauer, per proporre di tornare in patria per essere processato e informare i giovani su ciò che era realmente accaduto sotto Hitler (conservata negli archivi di stato tedeschi), oppure la riluttanza dei funzionari dell’intelligence della Germania Ovest - che sapevano dove si trovava Eichmann già nel 1952 – ad assicurare lui e altri ex gerarchi nazisti alla giustizia.
Ma il cuore del libro è il ritratto di Eichmann “esule” in Argentina, dove venne scovato e arrestato dagli agenti segreti del Mossad. All’apparenza era diventato un placido allevatore di conigli, con il nome di Ricardo Klement. In realtà l’ex gerarca nazista aveva conservato l’arroganza di un tempo e non era niente affatto pentito, tanto da spiegare la sua “attività” con una tirata che a leggerla lascia inorriditi. “Se 10,3 milioni di questi nemici fossero stati uccisi - disse degli ebrei - allora avremmo adempiuto il nostro dovere”.
Altrettanto interessante è la descrizione del cerchio magico di ex nazisti e simpatizzanti nazisti che lo circondava in Sudamerica. Personaggi che formavano una sorta di perverso club del libro, che s’incontrava quasi ogni settimana a casa di Willem Sassen per lavorare nell’ombra contro la narrazione pubblica emergente della Shoah, discutendo animatamente su ogni libro o articolo che usciva sull’argomento Con l’obiettivo di fornire materiale per un libro che avrebbe raffigurato l’Olocausto come una esagerazione ebraica, "la menzogna dei sei milioni" di morti.

(Il Messaggero, 4 settembre 2014)

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Storie - Un giorno con Primo Levi

di Mario Avagliano

«La memoria è uno strumento molto strano, è come il mare, può restituire dei brandelli, dei rottami magari, a distanza di anni». Teatro Rossini di Pesaro, 5 maggio 1986. Primo Levi incontra studenti e insegnanti di alcune scuole superiori della città marchigiana. Un interrogatorio preparato da mesi. E uno dei suoi ultimi incontri pubblici.
Durante tutto l’anno scolastico i ragazzi hanno letto i suoi libri, da “Se questo è un uomo” a “La chiave a stella”, accompagnando la lettura con ricerche, approfondimenti e dibattiti fra di loro e con i docenti. L'iniziativa rientra nel progetto "Il gusto dei Contemporanei", ideato da un gruppo di professori pesaresi.
Quella giornata particolare è tornata a rivivere in un film documentario, ”L’Interrogatorio. Quel Giorno con Primo Levi”, realizzato da Alessandro e Mattia Levratti, Ivan Andreoli e Fausto Cioffi e prodotto dalla Fondazione Villa Emma di Nonantola, l'ISCOP e la Biblioteca-Archivio "Bobbato".
Ventisette anni dopo, partendo dalla documentazione audiovisiva di quell’incontro e rintracciando i protagonisti di quella manifestazione, gli autori ci hanno dato l’occasione di rivedere e riascoltare Primo Levi ma anche di indagare i lasciti morali e ideali rimasti nella memoria di chi allora incontrò il grande testimone di Auschwitz.
«Volevo solo raccontare nel modo più obiettivo possibile, senza sbavature, senza imprecisioni, e anche senza accuse, quello che avevo visto», afferma Primo Levi sulla genesi di “Se questo è un uomo”.
Il dvd contiene anche la registrazione di un colloquio con Primo Levi avvenuto nel pomeriggio del 5 maggio 1986 presso la sede dell'Anpi di Pesaro.

(L'Unione Informa e Moked.it del 16 settembre 2014)

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Storie – Colorni e il sogno europeo

di Mario Avagliano

Tra le figure meno conosciute della Resistenza e dell’antifascismo italiano c’è quella di Eugenio Colorni, filosofo brillantissimo, confinato politico, partigiano, uno dei tre coautori del Manifesto di Ventotene precursore dell’Unione Europea (gli altri due erano Altiero Spinelli ed Ernesto Rossi). A fare luce su di lui è un’accurata biografia di Antonio Tedesco, “Il partigiano Colorni e il grande sogno europeo” (Editori Riuniti, pp. 205), patrocinata dalla Biblioteca della Fondazione Nenni, con prefazione di Giorgio Benvenuto, che sarà presentata venerdì 10 ottobre al Circolo "Giustizia e Libertà" di Roma (via Andrea Doria 79).
Eugenio Colorni, appartenente a una famiglia della medio borghesia ebraica milanese, secondogenito di Alberto Colorni e Clara Pontecorvo, è antifascista precoce, già a sedici anni, dopo l’omicidio Matteotti, e prosegue il suo percorso politico all’università, militando nei gruppo Goliardici per la libertà e poi aderendo a GL e al Psi.
In questi anni, anche grazie alla frequentazione con i cugini Sereni (Enrico, Emilio e in particolare Enzo) nelle estati a Forte dei Marmi, aderisce con fervore al movimento sionista, entrando nel 1928 nel comitato di segreteria del terzo congresso nazionale della Federazione Sionistica Italiana e partecipando nel luglio del 1929 al Congresso Sionista Internazionale di Zurigo.
Si allontanerà dal sionismo qualche anno dopo, pur conservando sempre vivo il sentimento di appartenenza alla comunità ebraica, per dedicarsi alla lotta in Italia contro il fascismo.
Iscritto al casellario politico già nel 1930 quale sospetto antifascista, diventa in poco tempo dirigente del Centro Interno Socialista. Il suo arresto il 5 settembre 1938, nel pieno della campagna razzista del regime fascista, farà clamore e sarà additato come esempio dell’antifascismo congenito negli ebrei. Il Corriere della Sera titola: “La trama giudaico-antifascista stroncata dalla vigile azione della polizia”.
Confinato a Ventotene, dove porterà a maturazione il suo ideale europeista a contatto con Spinelli e Rossi, e poi in Basilicata, nell’aprile 1943 si darà alla fuga, raggiungendo Roma ed iniziando un’attività politica clandestina. Nel settembre del 1943 sarà tra i promotori a Roma della Brigate partigiane Matteotti. Ferito gravemente il 28 maggio 1944 durante uno scontro a fuoco con due militi della Banda Koch a Piazza Bologna, morirà il 30 maggio all’Ospedale San Giovanni, dovendo così abbandonare la battaglia per realizzare il suo grande sogno: gli Stati Uniti d’Europa. Pietro Nenni scriverà nel suo diario: “La sua perdita è per noi irreparabile ed è dolorosa per la cultura italiana ed europea”.
In tempi come questi, in cui l’Europa è latitante, smarrita com’è nelle regole ferree dell’economicismo e del rigore dei conti, la figura e il pensiero di Eugenio Colorni, che prospettava un’unione federale di tipo politico e ideale, rappresentano – come ci spiega il libro di Antonio Tedesco - dei punti fermi dai quali ripartire e ritrovare passione ed entusiasmo.

(L'Unione Informa e Moked.it del 7 ottobre 2014)

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Storie – Il busto di Azzariti, il giurista antisemita

di Mario Avagliano

Da presidente del Tribunale della Razza a presidente della Corte Costituzionale. Il suo busto “adorna” tuttora il corridoio della Suprema Corte (così come tante strade in giro per l’Italia sono ancora intitolate a personaggi razzisti e antisemiti). È la storia paradossale del napoletano Gaetano Azzariti.
Ne avevamo già parlato io e Marco Palmieri nel libro “Di pura razza italiana”. La sua vicenda è stata approfondita da Massimiliano Boni, consigliere della Corte costituzionale, in un saggio sulla rivista del Mulino«Contemporanea», di cui ha parlato anche Gian Antonio Stella sul Corriere della Sera. Boni ha ricostruito la vita di Azzariti e il suo ruolo importante nella burocrazia razzista del regime di Mussolini, e ha censito 45 libri, saggi e discorsi vari nel catalogo delle biblioteche italiane, con il suo nome nel titolo o tra gli autori. Neppure uno cita la sua fede fascista e la sua consapevole scelta razzista.

Misteriosamente nel dopoguerra tutti gli atti del Tribunale della Razza sparirono. Nel “riciclaggio” di Azzariti ebbe un ruolo anche il leader comunista Palmiro Togliatti, che lo prese come suo collaboratore al ministero della Giustizia. Qualche anno dopo, nel 1957, divenne presidente della Corte Costituzionale. Una storia livida e vergognosa. Una testimonianza del passato razzista degli italiani colpevolmente oscurato dalla classe dirigente dell’epoca e che solo oggi riaffiora.

Ps: Della vicenda di Azzariti, si è occupata diversi anni fa anche Barbara Raggi, con un articolo su il manifesto, citato da Michele Sarfatti nel suo "Gli ebrei italiani durante il fascismo", e più di recente con il libro “Baroni di Razza”.

 

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Storie – Roma e il revisionismo della toponomastica

di Mario Avagliano

La storia non si riscrive con la toponomastica o con i premi alla memoria. Eppure a Roma, medaglia d’oro della Resistenza, c’è chi ne è testardamente convinto. Proprio questa mattina il Consiglio del Municipio Roma II, governato dal centrodestra, ha votato la proposta di risoluzione n. 52 avente per oggetto “Intitolazione strada a Giorgio Almirante” dell’attuale viale Liegi o di un viale di Villa Borghese, avanzata dal consigliere Roberto Cappiello del partito “la Destra” di Storace. La seduta è stata momentaneamente sospesa per le proteste dei partigiani dell’Anpi romana e di diversi esponenti politici (tra cui Carla Di Veroli), ma poi si è proceduto al voto della risoluzione, che fortunatamente è stata bocciata con il voto contrario dei 9 consiglieri del centrosinistra ma anche di un esponente del centrodestra e l’astensione di altri due (tra cui la presidente), mentre 8 consiglieri del centrodestra hanno votato a favore.

L’auspicio è che non venga più ripresentata né in questa né in altra sede. Giorgio Almirante fu infatti il segretario di redazione della rivista "La difesa della razza" (quindicinale che tra il 1938 e il 1943 fu il capofila del razzismo del regime fascista), caporedattore del "Tevere", distintosi per una campagna antiebraica già prima delle leggi razziali. Negli anni della Repubblica Sociale di Salò firmò un bando che imponeva la presentazione ai posti di polizia fascisti e tedeschi degli sbandati o appartenenti a bande, pena la fucilazione nella schiena per quanti non si fossero presentati.

Nei giorni scorsi ha provocato polemiche accese anche la decisione del sindaco Gianni Alemanno e del Campidoglio di concedere l’uso della prestigiosa Pietro da Cortona dei Musei Capitolini per la terza edizione del ‘premio Duelli-Gallitto’, un evento dedicato alla memoria dell’ausiliaria scelta di Raffaella Duelli e del comandante Bartolo Gallitto, entrambi della X MAS, organizzato dall’associazione X flottiglia MAS e da quelle Campo della Memoria ed Armata Silente.
Va ricordato che la X Mas di Junio Valerio Borghese, tra il 1943 e il 1945, oltre ad essere impegnata nelle azioni di repressione dei partigiani, agli ordini delle SS tedesche, macchiandosi di numerosi crimini di guerra, ebbe anche un carattere fortemente antisemita. La rivista della Decima, «L’Orizzonte», ospitò numerosi articoli contro gli ebrei, in particolare di Giovanni Preziosi, uno dei più importanti esponenti dell’antisemitismo di matrice fascista, in cui si sosteneva la teoria del complotto giudaico mondiale, in combutta con la massoneria.

L’Anpi di Roma ha promosso un sit in al Campidoglio ed ha parlato di “manifestazione inopportuna e impropria”, denunciando che queste organizzazioni sono “di chiara matrice nostalgica e revisionista, nate per celebrare la repubblica sociale italiana ed il fascismo”. E il presidente della comunità ebraica di Roma, Riccardo Pacifici, ha dichiarato: "Dare spazio logistico e patrocinio ad una kermesse del genere è stato un errore di valutazione, che condanniamo. Questi due signori, combatterono per un'ideologia folle, che ha portato l'Italia al baratro e che ha contribuito a costruire il clima dell'odio nei confronti dei diversi, in particolare nei confronti degli ebrei - con le leggi razziali del 1938 -. Queste persone, con l'occupazione nazista collaborarono con i tedeschi nella deportazione e nello sterminio degli ebrei".

(L'Unione Informa, 26 giugno 2012)

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